(ITALIAN) I PALESTINESI CHE USANO COME ARMA LA NONVIOLENZA

COMMENTARY ARCHIVES, 27 Nov 2009

Richard Boudreaux - Los Angeles Times, Osservatorio Iraq

Bil’in, Cisgiordania – Ogni venerdì, le forze di Mohammed Khatib si radunano per combattere la loro battaglia contro l’esercito israeliano, e preparano le loro armi: un megafono, degli striscioni – e la forte convinzione che la protesta pacifica possa portare alla creazione di uno stato palestinese.

A centinaia  marciano verso la barriera israeliana che separa la piccola comunità agricola di Bil’in dalla maggior parte delle sue terre. Cantano e gridano. Alcuni teenager lanciano pietre.

Khatib ha contribuito a dare il via a questo rito settimanale cinque anni fa, nel tentativo di “dare un nuovo carattere” alla lotta palestinese, spesso associata agli attacchi con i razzi e agli attentati suicidi.

“La non violenza è la nostra arma più potente”, dice il ‘mediatico’ segretario del consiglio del paese di Bil’in. “Se non ci possono accusare di terrorismo, non possono fermarci. Il mondo ci sosterrà”.

Il problema è che questo progetto non gode di molto sostegno all’interno della comunità palestinese. Dopo due rivolte in venti anni (la prima e la seconda Intifada), i palestinesi sembrano essere in gran parte indifferenti di fronte al suo donchisciottesco invito ad intraprenderne una terza.

Il suo messaggio è difficile da ‘vendere’: Khatib, 35 anni, è un Gandhi moderno in una cultura che contempla il linguaggio delle armi, benché la maggior parte dei palestinesi non ne abbia mai usata una. E i rischi del suo attivismo sono enormi.

L’esercito israeliano lo ha preso di mira. Quest’estate, nel corso di una serie di raid notturni nel paese venne arrestato, malmenato brutalmente e minacciato di morte. Fu liberato a condizione che ogni venerdì si presentasse ad una stazione di polizia israeliana all’ora della protesta settimanale.

Sebbene il villaggio abbia continuato a compiere le sue marce e sia diventato un simbolo di disobbedienza civile largamente acclamato, il suo progetto di esportare il modello “Bil’in” in tutta la Cisgiordania non si è materializzato.

Solo alcune migliaia di attivisti palestinesi negli ultimi cinque anni hanno ricevuto training sui principi e le tattiche della resistenza nonviolenta, secondo l’indipendente “Holy Land Trust”, con sede a Betlemme, che gestisce il corso. Le loro sporadiche iniziative hanno portato ad un miglioramento molto limitato delle restrizioni imposte da Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Ma questi sforzi non si sono concretizzati in un movimento di massa, tanto meno hanno costretto Israele a muoversi in direzione di un accordo su uno stato palestinese.

Gli attivisti dicono di essere ostacolati dagli attacchi israeliani, dalla rassegnazione diffusa tra i palestinesi, e da una profonda spaccatura della leadership politica, divisa tra la difesa della lotta armata, caldeggiata da Hamas, e la speranza dell’Autorità Palestinese in una rinascita dei colloqui di pace con Israele sotto l’egida degli Stati Uniti.

Nei territori palestinesi prevale una calma relativa, ma secondo Khatib questa impasse diplomatica non potrà durare a lungo.

Quest’uomo calvo, distinto e raffinato, assorto nei suoi pensieri,  irradia una forte intensità. In una lunga conversazione, parla dei suoi idoli – Mohandas Gandhi, Martin Luther King e Nelson Mandela – mentre riceve telefonate riguardo alla prossima mossa del suo progetto, volta a sfidare legalmente la barriera di separazione.

Egli crede che Israele stia cercando di schiacciare gli attivisti non violenti, perché preferirebbe piuttosto affrontare un’insurrezione armata.

“Questo non ci aiuta a convincere la gente che il nostro percorso di resistenza sia quello giusto”, afferma Khatib. “E sarà un processo lento. Finora non si sono visti molti successi”.

Khatib ha conosciuto la militanza da adolescente durante la prima Intifada, la rivolta che ha avuto inizio nel 1987. Bloccò le strade per cercare di tenere l’esercito fuori dal suo paese, dipinse slogan sui muri e sventolò la bandiera palestinese (allora un’azione illegale) alle manifestazioni.

La partecipazione di massa e lo svolgimento relativamente pacifico di quella rivolta, quando pochi erano i palestinesi armati non soltanto di pietre, ottenne la simpatia dell’opinione pubblica internazionale e portò ad una grande concessione: nei primi anni novanta Israele riconobbe l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e cominciò a prendere in considerazione la creazione di uno stato palestinese.

Le iniziative nonviolente di oggi derivano dalla nostalgia per la prima Intifada – quella che Khatib definisce una sobria reazione alla rivolta armata che ha insanguinato la prima metà di questo decennio, dopo che erano falliti i colloqui di pace. Sono morti più di 4 mila palestinesi e milla israeliani.

Khatib, che abbandonò la resistenza quando le cose stavano per farsi violente, ricorda gli omicidi che lo cambiarono.

Era il 2001. Khatib vide con orrore dei soldati israeliani che sparavano ad un amico disarmato presso un posto di blocco. Due settimane più tardi, i militanti delle brigate dei martiri di  Al-Aqsa si vendicarono al posto di blocco, uccidendo sette soldati.

“La mia prima reazione fu “bravi!”, dice Khatib. Poi si accorse che i soldati uccisi appartenevano ad un’altra unità, distinta da quella in servizio quando fu ucciso il suo amico.

“E mi sono chiesto: come possiamo rompere questo ciclo di morte, di azione e reazione violenta?”

La sua risposta è stata di organizzare un movimento contro l’eredità lasciata dall’Intifada: la barriera che Israele ha costruito per proteggersi contro gli attacchi dei militanti, ma che, al tempo stesso, divide profondamente la Cisgiordania in più parti, isolando i palestinesi dall’ 8% del loro territorio. La serie di panelli di cemento, recinzioni e strade di pattugliamento si estende per oltre 280 miglia.

Khatib ha coinvolto attivisti israeliani e internazionali perché marciassero ogni venerdì a fianco dei residenti di Bil’in fino alla recinzione, che qui è alta 4 metri. Essa protegge una parte del tentacolare insediamento ebraico di Modiin Illit, che si erige sulle terre del villaggio palestinese.

Egli ha fatto in modo che i manifestanti potessero servirsi di videocamere per documentare l’uso di gas lacrimogeni e proiettili di gomma da parte dell’esercito israeliano per tenerli lontani. Ha sempre applicato una tolleranza zero nei confronti dell’uso della violenza da parte degli attivisti, fallendo solamente nel caso di qualche ragazzo che lanciava pietre e, occasionalmente, colpiva i soldati.

Michael Sfard, un avvocato israeliano ingaggiato dal paese, attribuisce a Khatib il merito della “brillante” idea che, due anni fa, trasformò il trend avviato dal movimento in una vittoria giuridica storica.

Col favore dell’oscurità, Khatib portò una squadra di costruzione clandestina al di là della barriera, e costruì una capanna di fortuna sulle terre del villaggio che erano state usurpate per costruire un nuovo quartiere appartenente all’insediamento ebraico. (Questa manovra clandestina si ispirava alla strategia espansionistica di Israele, volta a creare “fatti sul terreno”).

Quando l’esercito minacciò di demolire la capanna, il villaggio si rivolse alla Corte Suprema di Israele denunciando la costruzione del nuovo quartiere, che non possedeva l’autorizzazione formale da parte del governo. Il tribunale ordinò allo stato di Israele di fermare la costruzione del quartiere, spostare la barriera di separazione, e ripristinare circa la metà dei 575 ettari di uliveti che gli agricoltori di Bil’in avevano perso.

Khatib poi istituì un’alleanza con 11 villaggi della Cisgiordania, perché condividessero le sue strategie, e in qualche caso questo ha portato dei frutti. Sei comunità hanno denunciato con successo il percorso della barriera costruita sulle loro terre. Gli attivisti si sono messi in comunicazione con alcuni sostenitori esterni per introdurre di nascosto camion che trasportavano acqua alle comunità isolate dall’esercito, e per proteggere i raccoglitori di olive dalle molestie dei coloni israeliani.

Ma a Bil’in, la vittoria legale ha incontrato molti ostacoli.

L’esercito non si è ancora conformato alla sentenza, e non ha ancora spostato la barriera, il cui nuovo itinerario è oggetto di dispute. Nel frattempo, i soldati hanno cominciato a reagire alle proteste con maggior forza, e la maggior parte degli israeliani, che considerano la barriera come uno scudo contro la violenza, è rimasta indifferente.

Nel mese di aprile, Khatib si trovava a pochi metri di distanza, quando un suo compagno, Bassem Abu Rahma, è stato ucciso da una granata di gas lacrimogeno ad alta velocità sparata sulla folla dei manifestanti.

La morte di Abu Rahma lo ossessiona ancora. Per ben due volte, afferma, i soldati lo hanno avvertito che avrebbe fatto ” la stessa fine di Bassem”, se avesse continuato ad opporsi alla loro presenza in Cisgiordania.

Khatib e altri 27 compagni, tra leader della protesta e altri partecipanti, sono stati arrestati nelle loro case durante i raid notturni che hanno avuto inizio nel mese di giugno. Diciassette sono tuttora detenuti. Khatib è accusato di incitamento alla violenza.

Interrogato sul motivo della repressione, un comandante israeliano ha affermato che erano stati fotografati e arrestati alcuni manifestanti che stavano provocando danni alla recinzione. Ma dopo una settimana di inchieste, l’esercito non ha presentato alcuna prova di danneggiamento.

Uno degli ultimi venerdì, gli abitanti del villaggio hanno lasciato un segno visibile sul recinto, una bandiera palestinese appesa al filo spinato. Dopo che i manifestanti erano andati a casa, un soldato l’ha tirata giù, ci si è pulito le mani e se l’è messa in tasca.

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(Traduzione a cura di Medarabnews)

Richard Boudreaux è stato corrispondente da più di 50 paesi in America Latina, in Europa, nell’ex Unione Sovietica e in Medio Oriente; vive a Gerusalemme

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ITALIAN – OSSERVATORIOIRAQ


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