(ITALIAN) GANDHI NEL XXI SECOLO

COMMENTARY ARCHIVES, 11 Dec 2009

Prof. Bhikhu Parekh – The Gandhi Foundation

The Second Fred Blum Memorial Lecture

Se dovessi riassumere Gandhi in una sola (sua) espressione, direi che impegnò la sua vita

“per crescere di verità in verità”.

In altre parole, egli disse che come essere umano aveva solo percezioni parziali della realtà ultima, ossia della verità su qualunque cosa, e la vita consiste nel nostro costante ergerci al di sopra dei nostri limiti e pregiudizi, esponendoci agli altri, e – così facendo – “crescendo di verità in verità”. Di fatto penso che ciò riassuma la vita del Mahatma e, secondo me, anche quella di Fred Blum.

Ora, che cosa si può dire del Mahatma nel XXI secolo? Penso che il modo migliore di affrontare l’argomento sarebbe chiedersi quali sono le questioni importanti con le quali cominciò il XX secolo e che ancora ci perseguiteranno per il prossimo secolo, se non di più. Delle tante tematiche alle quali ho pensato, direi che quattro sono cruciali:

1. Scontro di culture e di civiltà

2. Ruolo della religione nella vita pubblica

3. Esiste un’alternativa alla violenza?

4. C’è spazio per l’integrità personale?

Scontro di culture e civiltà

Grazie alla globalizzazione, culture e civiltà diverse vengono a contatto. Così facendo, s’imbattono in incomprensioni e fraintendimenti. Che cosa possiamo fare? Benché molti dicano inevitabile uno scontro, Gandhi dava una risposta di tipo diverso. Quando si verifico l’ “11 settembre” nel 2001, molti dissero che era dovuto a uno scontro di civiltà, e quanto è successo in seguito ha continuato a confermarlo. E perciò, secondo loro, il massimo in cui sperare è di gestire il mondo al meglio, attenendoci ai nostri valori, tenendo a bada i nemici, e cercando di far sì che il mondo resti ragionevolmente stabile ma essendo preparati agli scontri che si verificheranno di tanto in tanto.

Le argomentazioni di Gandhi erano:

(a)nessun tipo di scontro è inevitabile;

(b)credendo che lo siano, si demonizza l’avversario facendone un mostro disumano.

Così lo si pone al di fuori della comunità umana e, avendolo disumanizzato, si pensa di poterne fare qualsiasi cosa perché “non è un essere umano”. E quindi lo si può eliminare in una sorta di caccia. Molti paesi del Medio Oriente acquisiscono “punti di merito” per ogni individuo che riescono ad arrestare o uccidere, purché sia descritto come “sostenitore dei terroristi di Al Qaida”. In altri termini, una volta che si disumanizzino le persone s’inizia a disumanizzare se stessi, pensando che sia l’unico modo di trattarle; e così le inibizioni e gli scrupoli morali che normalmente governano la propria vita sembrano sparire.

Penso che questo tipo di analisi di Gandhi si sia mostrata vera, perché se si osserva come il presidente Bush parla di Al Qaida, e come a sua volta Osama bin Laden parla degli americani, c’è piena simmetria. Osama dirà “La vostra società capitalista americana in Occidente è un asse del male, siete dei degenerati”; e Bush ribalterà l’accusa. Osama dirà: “Nessuno di voi è innocente perché siete tutti complici nella colpa e per il danno che ci state infliggendo” E Bush analogamente: “O siete con noi o contro di noi”.

Gandhi non si stancò di dire – nelle sue lotte contro il razzismo in Sud Africa, per i reietti in India o contro i britannici – che scopriva sempre più come si diventa “l’immagine speculare” del proprio nemico. Sicché si tratta di una situazione senza vincitori. Cercando di sconfiggere un nemico, si sconfigge qualcosa di molto vitale in se stessi. Allora la risposta di Gandhi era che ciò che ci serve è il dialogo fra le culture, tentare di capirsi e intanto accorgersi che gli altri esseri umani non sono “altri” o estranei o nemici bensì essi sono “noi” in forma diversa, con i quali condividiamo una stessa comunità.

Facile da dirsi, e voglio esplorare la specificità del tipo di dialogo in corso in questo e altri forum – dove si parla semplicemente in modo per lo più garbato, cortese: io vi ascolto, voi mi ascoltate – e ce ne torniamo a casa proprio uguali a prima! Il Mahatma dice che questo è disonesto; non è un dialogo –semplicemente una serie di monologhi. Ci riteniamo l’un l’altro “un tipo o una ragazza simpatici” e non affrontiamo mai criticamente le rispettive convinzioni. La preoccupazione del Mahatma era quella che ho già ricordato – “andare di verità in verità”. Gandhi diceva che è importante il vero dialogo perché

(a)voglio sapere “che cosa ti appassiona” – qual è il tuo modo di pensare dal quale osservi il mondo esterno? e

(b) che cosa posso imparare da te?

Il vero dialogo sboccia dal desiderio di crescere, di espandere il proprio universo, di arricchirsi. Il che porta alla domanda successiva: perché vuoi arricchirti? Da dove viene quel desiderio? E Gandhi dice che viene dal riconoscere i tuoi limiti. In altre parole, l’auto-critica è il fondamento di un dialogo. Io, riflettendo su me stesso, trovo certi limiti, nella mia cultura, dentro di me. Voglio quindi aprirmi ad altri e vedere quali cose hanno da dirmi, incorporarle nei miei modi di pensare e, in questo processo, crescere.

Ecco un esempio di questo tipo di impegno creativo e critico di cui parlava il Mahatma: per tutta la vita osservò la propria civiltà rimanendo molto impressionato dal fatto che di tutte le civiltà, quelle hindu, buddhista e jain erano le massime assertrici della nonviolenza, l’ ahimsa. Così dalla propria civiltà prese alcuni concetti della nonviolenza.

Ma, riflettendo, si accorse che quest’idea è negativa perché passiva: la nonviolenza per l’indiano vuol dire non fare male a nessuno. Non significa andare verso gli altri e aiutarli e perciò è passiva. Non ha lo spirito attivo del servizio sociale e dell’amore. Allora Gandhi si rivolge al cristianesimo, una religione che conobbe molto da vicino nei circa ventun’anni che passò in Sud Africa. Da essa trasse il concetto di caritas o amore; amore attivo. Così assume dagli hindu il concetto di nonviolenza, lo combina con quello cristiano di caritas pervenendo all’idea di “servizio attivo per amore degli esseri umani”.

Ma poi, riflettendo ancora, è lievemente insoddisfatto del concetto cristiano d’amore in quanto è emotivo, mentre stava cercando un genere d’amore che non comporti disturbi emotivi interiori. E si rivolge nuovamente al concetto hindu di “non-attaccamento” – arrivando all’idea di “impegno distaccato ma attivo nel mondo, nello spirito dell’amore per i vostri fratelli esseri umani”. Come si vede, ecco un uomo che elabora liberamente concetti tratti da diverse religioni. In aggiunta a questo ci sono i suoi digiuni, che possono essere nati solo da una tensione creativa fra le due tradizioni. Questo è quindi ciò che intendeva Gandhi quando parlava di dialogo fra le civiltà.

“E questo significa” diceva Gandhi “che poiché altre civiltà sono le mie interlocutrici, esse sono le mie fonti d’ispirazione. Faccio loro i miei auguri, desidero che prosperino”.

In questo modo il dialogo si traduce quindi in una simpatia universale per svariati punti di vista e in un desiderio di vederli crescere e prosperare.

Il ruolo della religione nella vita pubblica

Seconda domanda: qual è il ruolo della religione nella vita pubblica? Ebbene, molti di noi si spaventano quando la religione viene introdotta nella vita pubblica! Sappiamo che cosa succede – può condurre o all’ayatollah Khomeini, o al BJP in India, o agli evangelici negli USA quando tentarono di convincere Reagan ad attaccare il cosiddetto impero del male dell’Unione Sovietica, ecc. La religione spaventa. Perciò l’impulso dei liberal è di dire “per favore tenetela fuori della politica”. Ogni volta che si vede un personaggio religioso o si sente un’asserzione religiosa essi dicono: “Va benissimo vivere secondo quel dettame, ma non lo si porti nell’arena politica, perché si desteranno passioni ataviche, si porranno esigenze assolutiste siccome la religione si esprime in termini di emozioni assolute, come appunto gli evangelici.

Questo non è il modo di fare della politica, che riguarda il compromesso, ciò che si può negoziare, che si può discutere per giungere a un accordo”. In questo caso, la difficoltà consiste nel fatto che per le persone religiose la religione non può essere limitata solo alla sfera privata. Non la si intende solo nel permettere la contemplazione tra voi e l’Onnipotente: la religione è una questione di valori ritenuti fondamentali. Voi volete vivere secondo quei valori, essi vi plasmano e pertanto plasmano la vita pubblica.

Perciò la religione semplicemente non si può escludere dalla vita pubblica. Ma al tempo stesso, la religione può valicare un limite divenendo religione ‘di stato’: allora lo stato comincia a far valere certi valori religiosi – com’è accaduto in Iran, Afghanistan e molti altri luoghi. Quindi la domanda per noi – e la risposta che cerco dal Mahatma – è: com’è possibile riconoscere la religione come fattore significativo nella vita pubblica e personale del religioso, ma nel contempo impedirle di fagocitare lo stato diventando autoritaria e illiberale?

Credo che qui Gandhi avesse qualcosa d’importante da dire. Primo, che la religione ha un posto centrale nella vita pubblica, ma non dovrebbe aver nulla a che fare con lo stato. In altri termini, nel pensiero religioso di Gandhi è centrale la distinzione fra l’ambito pubblico e le istituzioni dello stato. Sicché, la religione ha un posto legittimo nella vita pubblica, ma le istituzioni dello stato non dovrebbero avere nulla a che fare con essa; dovrebbero essere laiche. Gandhi, per esempio, sorprese molti opponendosi al finanziamento statale delle scuole o delle organizzazioni religiose, non essendo questo un compito dello stato. Qualunque forma di organizzazione religiosa che non sia in grado di essere sostenuta dai propri membri è morta. Se credete veramente in una religione, trovate i fondi per mantenerla viva. Quindi la sua prima argomentazione importante era che ci serve uno stato laico, con la religione che svolge un ruolo importante nella vita pubblica.

La seconda cosa importante che diceva è che si deve riconoscere che nessuna religione è perfetta – così come nessun paese è perfetto. A tale proposito sorgono questioni molto complesse, nelle quali non possiamo addentrarci in questa sede, nei casi in cui le religioni pretendano di essere ‘rivelate’ direttamente dall’Onnipotente – per esempio Allah che detta il Corano, Gesù come Figlio di Dio. Queste religioni si riterrebbero ‘perfette’, e avrebbero un bell’osso duro da mordere con il Mahatma quando disse che per definizione nessuna religione può essere perfetta. La sua argomentazione procedeva all’incirca così: Dio è infinito; la mente umana finita non può captare l’infinito; perciò tutte le nostre percezioni sono intrinsecamente limitate. Se anche ci fosse una rivelazione diretta, verrebbe trasmessa in linguaggio umano, con tutte le sue limitazioni, a un essere umano, uno specifico, che sia profeta o altro, il quale ha i suoi propri limiti e pertanto Gandhi sostiene che ogni religione percepisce una visione particolare della vita umana. Quella è la sua forza; ma in quanto esclude altre visioni, questo è anche il suo limite. Perciò ogni religione beneficia di un dialogo critico e sistematico con Dio e con le altre religioni. Questa è la ragione per cui la vostra comprensione di altre religioni, della realtà ultima di Dio, si approfondisce quando vi impegnate con altre religioni nel cercare di vedere come esse percepiscano l’infinito.

Gandhi soleva citare spesso il famoso esempio della tradizione jainista dei molti ciechi che cercano di descrivere un elefante. Uno ne tasta la proboscide e dice che Dio è qualcosa di simile a questa, un altro ne abbraccia una zampa e dice che un elefante è come un castello – e così via. Per Gandhi ciascuno ne capta qualcosa, ma di limitato. Anche se descrivessimo un evento al quale tutti noi abbiamo assistito, lo descriveremmo in modo diverso secondo le rispettive prospettive – e come potrebbe essere altrimenti in relazione all’infinito e a Dio?

Perciò l’atteggiamento appropriato di una religione verso un’altra non è di cercare di convertire le persone, ma piuttosto di entrare in un dialogo critico, cosicché ciascuna possa avvantaggiarsi dell’altra. In questo modo si costruisce una fraternità – una solidarietà di credenti in diverse religioni, anziché ostilità.

L’alternativa alla violenza

Passiamo alla mia terza domanda: il Mahatma ha un’alternativa alla violenza? Ovviamente egli era del tutto contrario alla violenza per principio – sebbene in pratica abbia tollerato di tanto in tanto atti di violenza sulla base del fatto che quando gli esseri umani sono disperati e pressati oltre una certa soglia, essi possono reagire, e questo è comprensibile anche se può non essere giustificato. Dobbiamo lottare contro l’ingiustizia – su cui non ci può essere compromesso. Pertanto non si può essere pacifisti nel senso che non si bada allo stato del mondo. Le ingiustizie ci interpellano e si deve fare qualcosa. Ma la violenza è la risposta? Gandhi dice di no, perché la violenza stessa è una forma d’ingiustizia. Essa comporta inoltre rancore e non può creare nulla di durevole perché lascerà sempre uno strascico di cattiva volontà. Perciò, mentre la violenza non è la risposta, si deve pur sempre lottare per la giustizia.

L’unica risposta è la discussione razionale. Ma Gandhi diceva che c’è un’altra importante lezione che aveva imparato nel corso della sua vita e cioè che la ragione ha i suoi limiti. Essa può condurci fino a un certo punto, ma quando il cuore è duro e rigido, come continuava a dire, la ragione non è più sufficiente. Quel che serve è l’unità di intelletto e cuore. La ragione può solo fare appello all’intelletto – dobbiamo trovare modi di attivare il cuore dell’altro, la coscienza, il suo universo morale, in modo tale che sia disposto a riconoscervi come essere umano e a quel punto può cominciare a svilupparsi un discorso razionale. La ragione ha i suoi limiti e Gandhi diceva che talvolta si può trovare un gran razionalista che diventa un gran difensore della violenza. Per esempio: se non riesco a persuadere qualcuno, il razionalista direbbe: “questi sono moralmente ottusi, non serve parlargli, non sono ragionevoli, non sono umani” – e pertanto si trova una giustificazione razionale per impegnarsi nella violenza contro di loro. E l’argomentazione di Gandhi era che la relazione fra ragione e violenza è molto più stretta di quanto ci si renda conto.

Allora, quali sono le alternative? Saprete del satyagraha – la ‘chirurgia dell’anima’, ragione connessa con l’intelletto e resistenza nonviolenta connessa col cuore. In altre parole, allorché chi compie ingiustizia non riconosce la vittima come essere umano, le domande sono “Come possiamo attivare la sua coscienza? Come possiamo fargli riconoscere che entrambi sono esseri umani e pertanto hanno determinati diritti?” La risposta di Gandhi è che ciascuno di noi prenda su se stesso il peso dei peccati altrui e della sofferenza nonviolenta. Se prendiamo in considerazione il satyagraha, ossia il modo di impegnarci nella nonviolenza, esso consiste essenzialmente di tre metodi d’azione, che si sono evoluti nel tempo:

1. Non-cooperazione. La gente vede che esiste un regime malvagio, si rende conto della propria complicità nel tenerlo in piedi, e rifiuta di cooperare con esso.

2. Boicottaggio. Per esempio, il boicottaggio dei tessuti britannici a favore di quelli indiani filati in casa.

3. Disobbedienza civile. Si infrange la legge perché la nostra coscienza non ci permette di obbedire, e si accetta la sanzione senza cedere.

E’ sorprendente come questo tipo di disobbedienza civile e di non-cooperazione stia tornando su larga scala nel XXI secolo. Sono stato coinvolto – non direttamente, ma con una partecipazione passiva – in molte discussioni in cui le domande vertevano sulla guerra in Iraq: più di un milione di persone hanno protestato in Gran Bretagna, decine di milioni in tutto il mondo, anche i religiosi erano contrari… eppure la guerra è continuata. Che cosa avremmo potuto fare per fermarla? E se qualcosa del genere dovesse di nuovo accadere, che cosa dovremmo fare allora per impedirlo? Sempre di più si comincia a dire che la disobbedienza civile potrebbe essere la risposta: non pagheremo le tasse, non coopereremo con voi. E se un milione di persone, invece di marciare avessero fatto così, che cosa sarebbe successo?

La stessa cosa sta cominciando anche negli Stati Uniti. Un fine studioso gandhiano mio amico, il prof. Douglas Allen, titolare di filosofia all’Università del Maine, pochi mesi fa ha organizzato con colleghi accademici e studenti una pacifica dimostrazione davanti all’ufficio del senatore locale. Sono stati arrestati, processati e condannati a servizi utili alla comunità. Douglas mi diceva che molti negli USA cominciano ad avere sempre più l’impressione che se dovesse incombere all’orizzonte qualcosa di simile all’Iraq, bisognerebbe salire al passo successivo nel livello d’azione – appunto quello che faceva Gandhi. Penso che dovremmo domandarci se tali metodi impiegati da Gandhi siano i soli o se ce ne siano altri per attivare la coscienza dell’avversario o far pressione sul governo quando tenta di far qualcosa che è ingiusto. Quali altri metodi si possono aggiungere a quelli gandhiani?

Quand’ero in Israele, non molto tempo fa, ho interrogato parecchi miei ospiti arabi sulla possibilità di usare la nonviolenza contro gli israeliani, dato che reagiranno sempre alla violenza. Che cosa succederebbe, domandai, se doveste impegnarvi in una resistenza di tipo gandhiano – disobbedienza civile, non-cooperazione – dicendo agli israeliani che non nuocerete loro ma volete che si rimedi alle ingiustizie: ‘se volete spararci, fatelo’.

Pensate che il governo israeliano ordinerebbe di uccidere un migliaio di persone o anche di più? Se si fosse organizzato un tale movimento nonviolento sotto lo sguardo del mondo, chissà quale successo avrebbe avuto? Il metodo gandhiano si può impiegare in situazioni complesse intrattabili, il che non vuol dire che riuscirebbe sempre. Per esempio, contro l’URSS di Stalin o la Germania di Hitler, la nonviolenza non avrebbe probabilmente funzionato perché non c’erano testimoni in grado di riferirne al mondo. Ma il punto è che nel XXI secolo non siamo in quella situazione. Data la presenza di internet con accesso a quasi ogni parte del mondo, penso che il metodo gandhiano avrebbe grosse probabilità di funzionare.

Il posto per l’integrità personale

Passiamo alla mia quarta domanda, se c’è un posto per l’integrità personale. Abbiamo visto che i nostri valori sono in costante revisione alla luce delle esperienze che via via facciamo. Ma una volta che li abbiamo perfezionati e ne siamo ragionevolmente soddisfatti, diciamo allora usando le parole del teologo Lutero:

“Non posso fare altro. Questa è la mia vita, l’insieme di valori su cui è costruita la mia vita, voglio vivere secondo essi”.

E il punto di vista di Gandhi era, — e questo penso sia un modo insolito di guardare a lui — che tali valori ci definiscono. Essi costituiscono la nostra verità: la verità della mia vita è la verità dei valori in base ai quali voglio vivere. E perciò l’integrità per lui in sostanza vuol dire: come posso vivere secondo la mia verità? Secondo la verità come la vedo io, riconoscendo che andrò costantemente ‘di verità in verità’.

Gandhi direbbe, per esempio, che sia il capitalismo sia il comunismo sono male, ma che non serve limitarsi a fare delle campagne contrarie – se sono un male, lo si nota nella nostra vita o no? Per esempio, egli considerava che il male del capitalismo stia nella bramosia di possesso, nell’acquisizione di proprietà e così via. Pertanto non aveva proprietà private e quando morì non lasciò che i suoi sandali, la sputacchiera e le sue tre scimmiette – niente assicurazione, scritti, royalty o diritti d’autore – nulla. Un altro esempio era l’intoccabilità in India. Gandhi se ne lamentava, la combatteva, ma poi si chiese se la vivesse anche lui.

E quindi andò a vivere fra gli intoccabili e adottò una figlia intoccabile. Essendo profondamente religioso, Gandhi credeva di doversi potere fidare in ultimo di Dio. E rifiutava perciò di avere qualsiasi tipo di sicurezza, nessuna guardia del corpo. E quando attentarono più volte alla sua vita, e il governo indiano insistette perché accettasse una protezione fisica, Gandhi disse:

“Il giorno che cercassi protezione fisica, preferirei piuttosto cessare di vivere”.

A un incontro di preghiera, quando qualcuno gettò una bomba e la folla cominciò a disperdersi, Gandhi se ne stette seduto immobile dicendo alla folla:

“Spaventati di una semplice bomba?”

e continuò a pregare. Questa era l’integrità di quell’uomo. Così profonda che quando l’India divenne indipendente non lo si vide più dalle parti di New Delhi. Quando il primo ministro dell’India disse che Gandhi avrebbe dovuto esserne il presidente in una posizione di potere, egli pensò fosse uno scherzo! E disse:

“Il mio posto è fra le vittime della violenza tra musulmani e hindu”.

Questa, credo, è la lezione che si può imparare dalla sua vita: integrità personale; come quando disse,

“La mia vita è il mio messaggio”

Penso che la sua vita fosse decisamente un messaggio di assoluta, indefettibile integrità personale:

“Questo è dove sto. Questo è come vivrò. E a meno che sia convinto di sbagliarmi (e potrei convincermene) così è come vivrò”.

Penso che i modi diversi in cui ho cercato di condurvi attraverso queste quattro domande stiano a dimostrare che il Mahatma non è disposto a sparire nel XXI secolo!

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Di origine indiana, il prof. Bhikhu Parek risiede da molti anni in Gran Bretagna dove ha insegnato in molte università. E’ noto come uno dei più autorevoli interpreti del pensiero gandhiano e sostenitore della Gandhi Foundation di Londra (http://gandhifoundation.org).

Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis

Titolo originale: Gandhi in the 21st Century
http://gandhifoundation.org/2009/09/02/gandhi-in-the-21st-century-by-bhikhu-parekh/

GO TO ORIGINAL – CENTRO STUDI SERENO REGIS

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