(ITALIAN) I CONTRACTORS SONO MERCENARI?

COMMENTARY ARCHIVES, 21 Jan 2010

Gianni Minà – LatinoAmerica, Editoriale

Un giudice federale di Washington, Ricardo Urbina, ha rifiutato l’incriminazione per strage di alcuni mercenari nordamericani, dipendenti della famigerata Blackwater, accusati di aver ucciso, senza motivo, 17 civili iracheni a Baghdad nel 2007. Le ragioni con cui Urbina ha motivato la sua decisione sono una vera e propria caricatura del garantismo più estremo e capzioso: gli investigatori e i procuratori che hanno indagato sull’eccidio “nel loro zelo di portare prove, hanno cercato aggressivamente dichiarazioni subito dopo la sparatoria e nelle indagini successive”. E non è tutto. Il giudice Urbina sostiene che, nel fare questo lavoro “la squadra di inquirenti del governo di Washington ha ripetutamente trascurato gli avvertimenti di esperti e procuratori anziani assegnati specificamente al caso per consigliarli”, con tanti saluti all’autonomia degli stessi inquirenti. E questo perché, secondo lui, avrebbero utilizzato per l’accusa dichiarazioni che gli indagati avevano reso sotto la minaccia di essere licenziati e con la promessa che non sarebbero state usate in tribunale.

Così, basandosi su questo fondamento giuridico scovato chissà dove, Urbina ha evitato ai cinque un processo per strage, rifiutandosi, in definitiva, di “giustificare la sconsiderata violazione dei diritti costituzionali degli imputati come un innocuo errore”. Dello sconsiderato eccidio di donne, vecchi e bambini compiuto a Nisour Square il 16 settembre 2007 dai cinque mercenari della Blackwater, facenti parte della scorta a un convoglio che stava evacuando funzionari americani dopo un attentato, a lui invece non è importato nulla, né come giudice né come essere umano.

Per Ricardo Urbina, campione della giustizia della democrazia nordamericana, non è importante sapere perché a un incrocio trafficato i cinque contractors individuati -ma anche altri non identificati- abbiano cominciato a sparare a man salva sulla folla. Senza nessuna ragione, secondo l’accusa, in risposta invece a un attacco, secondo la difesa.

Ma grazie alla linea scelta da Urbina, senza nessun rispetto per l’etica e il diritto di tutti, non solo dei mercenari, non lo sapremo mai e l’eccidio di Nisour Square sarà solo uno dei tanti “effetti collaterali” o uno dei tanti “tragici errori” di una guerra senza senso e senza motivazioni, se non quella squallida del controllo di paesi scomodi ma con fonti di energia.

Cosa sono, in fondo, diciassette civili iracheni uccisi e senza giustizia? Come ha scritto qualcuno, “una goccia trascurabile nel mare dei caduti sulla strada della democrazia”. Quello che più colpisce, semmai, è proprio l’affermazione che le vittime civili siano il prezzo pagato al ristabilimento della democrazia. Di quale democrazia stiamo parlando se, per esempio, in Afghanistan, per un’altra guerra senza fine in una terra che è già stata una trappola fatale per Gran Bretagna e Unione Sovietica, attualmente sono in campo più contractors [104mila] che soldati dell’esercito Usa e del contingente Nato [circa 100mila]?

Quale morale crediamo di esportare se la guerra, specie quella sporca, la fanno i mercenari, senza alcuna regola? Una volta la guerra veniva dichiarata, con ambasciatori. Non è che fosse più nobile o accettabile di quelle che si fanno adesso, senza alcuna dichiarazione. Ma almeno la combattevano gli eserciti e soltanto gli eserciti. Adesso i conflitti si fanno per procura e le cose più abominevoli, dalle stragi di civili, alle torture ai prigionieri, alla protezione dei presunti uomini d’affari che vanno nei teatri di guerra per rapinare le ricchezze di un popolo o di una nazione, sono appaltate alle confraternite della violenza, chiamate agenzie di sicurezza, in realtà veri e propri eserciti privati che non rispettano nessuna regola e nessuna legge.

Forse è per questo che da noi tali combattenti, a 15mila dollari al mese, li chiamano contractors e non mercenari, per quell’ipocrisia delle parole per cui la guerra in Afghanistan, che dura da 9 anni, si chiama “operazione libertà duratura”.

Di questo uso spregiudicato e fuorviante delle parole si rallegrava, invece, recentemente, il Corriere della Sera, commentando l’archiviazione dell’indagine riguardante Paolo Simeone e Valeria Castellani, proprietari della Intersos, un’agenzia di sicurezza italiana, che aveva ingaggiato, per alcune operazioni in Iraq, quattro italiani, Quattrocchi, Stefio, Agliana e Cupertino. I quattro, però, erano stati catturati nell’aprile del 2004 dalle Brigate Verdi, una delle fazioni della resistenza irachena e Quattrocchi [non è stato ancora chiarito perché] era stato fucilato dopo pochi giorni.

Era morto con grande dignità. “Vi faccio vedere come muore un italiano”, aveva detto prima dell’esecuzione davanti a una telecamera, e il suo comportamento orgoglioso aveva colpito l’opinione pubblica tanto che ben due procure, quella di Genova e quella di Bari, avevano aperto un indagine in base all’articolo 288 del codice penale che punisce “l’arruolamento o l’armamento non autorizzato al servizio di uno Stato estero”, per scoprire in che modo Quattrocchi e i suoi compagni erano stati arruolati, e per quale lavoro.

Ora il giudice per le indagini preliminari di Genova, su richiesta del pubblico ministero Francesca Nanni,  ha deciso l’archiviazione dichiarandosi convinta che i quattro contractors italiani svolgevano in Iraq attività di security, di guardia del corpo e non partecipavano, invece a “incursioni dirette a mutare l’ordine costituzionale di un paese”. Non erano quindi, a suo giudizio, dei mercenari, ma solo dei bodyguards.

È difficile stabilire se l’interpretazione corretta di questa storia è quella della procura di Genova e non quella della procura di Bari, che invece continua a indagare su Salvatore Stefio e sul suo socio Giampiero Spinelli, accusati di aver violato lo stesso articolo del codice, quello riguardante l’ingaggio di persone per andare a fare una guerra su commissione, per il quale sono stati assolti i proprietari dell’agenzia Intersos.

Certo, ci vuole un bel coraggio per arrivare alla conclusione, come ha fatto il Corriere della Sera, che, dopo questo verdetto, andare a fare il contractor in Iraq sia un lavoro leggittimo, pulito, per costruirsi un avvenire e una famiglia, non importa se sulla pelle di un popolo. E quindi è normale che qualcuno voglia dedicare una strada a Quattrocchi

Perché anche chi prende 15mila euro al mese per fare il guardiaspalla -e non il mercenario come quelli di Blackwater, che invece non si vergognano per niente di questa definizione- dovrebbe domandarsi cosa ci fa in un paese dove servono decine di migliaia di bodyguards per proteggere un esercito mandato in teoria per ristabilire la democrazia, o per scortare dei manager venuti per avviare la ricostruzione di un paese che invece saccheggiano.

Per questo sono sconcertato quando apprendo che solo il 30 dicembre scorso, nell’attacco suicida del terrorista giordano Humam al-Balawi nella base Usa di Camp Chapman a Khost, sul confine fra Afghanistan e Pakistan nella zona dove teoricamente si nasconde bin Laden, fra le sette vittime nordamericane, tutti agenti della Cia, c’erano anche due contractors della Xe, come ora si chiama la famigerata Blackwater, Dane Paresi e l’ex membro dei corpi speciali della Marina Usa Jeremy Wise.

Lascia basiti non solo il fatto che, dopo nove anni di guerra, i talebani siano ancora in grado di colpire al cuore l’intelligence nordamericana e decapitare l’avamposto Cia più sofisticato nel loro territorio, ma anche che, dopo tutte le smentite di Leon Panetta, direttore della Cia, sul livello di collaborazione ancora in piedi con gli impresentabili guerrieri a gettone di Xe-Blackwater, i drammatici risultati dell’attentato rivelino che il Dipartimento di Stato e il Pentagono si avvalgono ancora di questi assassini e torturatori e non per azioni superficiali.

“A oggi, Blackwater non è coinvolta in nessuna nostra operazione in ruoli che non siano di sicurezza o supporto” aveva dichiarato ufficialmente il portavoce della Cia, George Little, lo scorso 11 dicembre. E, prima di lui, il direttore Panetta, a giugno aveva dichiarato davanti al Congresso che la Cia aveva cancellato tutti i piani di assassini mirati in cui era coinvolto personale Blackwater.

Non sono le bugie che lasciano perplessi, ma la convinzione che la guerra nel tempo che viviamo debba essere per forza “sporca” e vada condotta senza alcun ritegno, magari, per salvare la faccia, appaltandola a professionisti dei crimini di guerra. Nella maggior parte è questo il mestiere del contractor.

Non sorprende quindi che sempre The Nation, così come fece per i tremila cittadini americani di religione musulmana “desaparecidos” qualche anno fa per le leggi antiterrorismo varate da Bush jr dopo l’11 settembre 2001, abbia messo sotto tiro la Blackwater e tutte le sue vecchie e nuove imprese e stia conducendo una puntuale indagine sul modo disinvolto di condurre le guerre in Afghanistan e Iraq anche nell’epoca di Obama.

Un dovere al quale, ancora una volta, non hanno sentito di dover ottemperare i media italiani, d’altronde carenti in precisione ed etica per esempio su tutti gli argomenti caldi nel complicato tramonto del 2009 in America latina. Dalle elezioni farsesche in Honduras, al voto dell’Onu –ribadito per la 18esima volta da 187 nazioni- contro l’embargo Usa a Cuba, al trionfo di un ex tupamaro, Pepe Mujica, nelle elezioni presidenziali in Uruguay, e alla conferma di Evo Morales in quelle boliviane dopo che, per anni, la stampa occidentale aveva preannunciato l’imminente fine del suo progetto di società che sogna il buen vivir e il rispetto dei diritti di tutti.

Per parte della stampa occidentale, ma è più giusto dire di quella italiana e spagnola, anche quella che una volta fu progressista, era più pressante dare spazio alla bloguera cubana Yoani Sánchez, anche dopo che era stato provato che le sue tirate contro la Revolución erano trasmesse grazie a un server tedesco che dispone di una banda 60 volte superiore a quella dell’intera rete cubana, e che il suo sforzo, come detto, era solo un segmento della cyberguerra decisa nel 2003 dall’ex ministro della Difesa Usa Donald Rumsfeld, contro Cuba. Non a caso la rivista Resumen latinoamericano l’ha definita “la figlia di Prisa”, ricordando che questa nuova strategia della tensione è cominciata con il premio Ortega y Gasset assegnatole un anno fa dal gruppo che edita el País, uno dei quotidiani un tempo progressisti e che, recentemente, ha ceduto parte del suo impero riguardante radio e televisioni locali, che servono nel mondo 30 milioni di utenti, al gruppo Mediaset.

È una questione di sensibilità giornalistica e di morale, sulla quale è inutile dilungarsi ancora.

Su gli spunti che queste due storie portano in superficie e suggeriscono, è basato questo numero 109 della rivista.  

Voglio riservare le ultime righe ad Harry Villegas, Pombo, uno di cinque compagni sopravvissuti al Che in Bolivia, su cui è uscito recentemente un interessante libro di Roberto Borroni e che mi ha aiutato, con i suoi ricordi, a leggere con più chiarezza il suo paese nel film documentario in due parti Cuba nell’epoca di Obama. Un film di prossima uscita nel quale ho tentato di raccontare con onestà Cuba dal di dentro in una stagione di inevitabile cambiamento

GO TO ORIGINAL – LATINOAMERICA

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