(ITALIAN) LA GUERRA IMPOSSIBILE DEI REFUSENIK DI ISRAELE

COMMENTARY ARCHIVES, 29 Jan 2009

Andrea Dessi*

L’ultima guerra israeliana nella striscia di Gaza ha ottenuto un sostegno senza precedenti da parte della popolazione dello Stato ebraico. Secondo un recente sondaggio condotto dall’università di Tel Aviv, l’appoggio della società israeliana per l’operazione “Piombo fuso” ha raggiunto il livello record del 94 per cento.

In questo contesto, la minoranza che si è opposta all’azione militare è rimasta per lo più ignorata o – peggio ancora – pubblicamente accusata di “alto tradimento” o “simpatia per il nemico”.  

Tra i gruppi che si sono opposti all’operazione militare a Gaza, Courage to Refuse è forse l’unico che grazie alla sua composizione può sperare di suscitare una risposta meno ostile da parte della società israeliana.  L’organizzazione, fondata ufficialmente nel 2002 con la pubblicazione di una lettera firmata da 50 soldati e ufficiali appartenenti all’esercito israeliano (Idf), è infatti il primo gruppo interamente dedicato al fenomeno dei refusenik in Israele.
 
L’organizzazione conta attualmente 628 membri, tutti soldati o riservisti nelle file dell’Idf, che nel firmare la “lettera dei combattenti”, pubblicata nei maggiori quotidiani d’Israele ad intervalli continui dal 2002, hanno apertamente rifiutato di servire nell’esercito per qualsiasi azione correlata all’occupazione dei Territori palestinesi. “Noi, riservisti e soldati dell’Idf [..] siamo consapevoli che i territori [occupati] non fanno parte d’Israele” afferma la lettera, che inoltre dichiara “non continueremo a combattere al di là dei confini del 1967”, ma “continueremo a servire nell’Idf in qualsiasi missione il quale scopo è la difesa d’Israele. Le missioni d’occupazione e oppressione non hanno questo scopo – e noi non ce ne renderemo complici”.

Rifiuto di combattere

Le recenti operazioni militari a Gaza hanno  di nuovo posto in rilievo il ruolo degli obiettori di coscienza all’interno della società israeliana. Sarebbero infatti almeno 10 i refusenik di questa guerra, e tutti rischiano una sentenza che va da 14 a 35 giorni di galera. In due sono già stati condannati. Tra questi, Noam Livne, 34 anni, che attualmente studia per un dottorato in matematica. Lo abbiamo raggiunto per telefono nella sua casa di Tel Aviv il 19 gennaio, la sera prima della sua apparizione in corte.  “Ho il presentimento che andrò in galera” dice con un tono di rassegnazione.

Per Noam non sarebbe la prima volta; è stato infatti già condannato nel 2001 a 22 giorni di prigione per aver rifiutato il richiamo alle armi durante la seconda Intifada. Avendo rifiutato il servizio ancor prima della fondazione del gruppo Courage to Refuse nel gennaio 2002, dopo la sua scarcerazione nel 2001 ricorda come sia “diventato molto attivo nell’opposizione all’occupazione” e sia entrato subito in contato con il “movimento dei refusenik” che a quel tempo era nelle prime fasi nascenti.  

Avendo servito nell’esercito israeliano per più di sette anni come ufficiale nel genio militare, Noam ci racconta come sia arrivato alla decisione di diventare un refusenik. “E’ stato un processo di maturazione. Mi sono sempre opposto all’occupazione [..] il mio servizio di leva obbligatorio è stato durante gli anni degli accordi di Oslo, un periodo molto ottimista. Sembrava che quelli fossero gli ultimi giorni dell’occupazione e noi dovevamo fare il necessario per mettere fine al conflitto”.

“Allora – dice Noam – non avevo dei problemi morali con le missioni specifiche di cui mi occupavo. Dovevo scortare i pullman scolastici dei bambini delle colonie di Gaza. Sai non è colpa loro se sono nati nelle colonie…”.

Dopo la conclusione del suo periodo di leva divenne di nuovo un civile, sfruttando questo periodo per viaggiare molto, ma al suo ritorno in Israele come studente per un primo diploma fu convocato a Nablus come riservista nell’esercito. “Era il periodo iniziale della seconda Intifada – ricorda – e al tempo leggevo molto, specie la colonna settimanale di Gideon Levy nel giornale Ha’aretz. Giunsi alla conclusione che l’unica ragione per la presenza dell’Idf nei territori occupati era la protezione delle colonie e questo non aveva niente a che fare con la sicurezza o la difesa d’Israele. Io questo non lo posso ne giustificare ne accettare moralmente”.

Dopo essere uscito di prigione, e mentre altri come lui prendevano la decisione di rifiutare il servizio militare durante i primi anni della seconda Intifada, nel gennaio 2002 venne pubblicata la ‘lettera dei combattenti’ tramite la quale, con il passare degli anni, più di 600 soldati hanno potuto dare voce alla loro obbiezione all’occupazione. “La nostra enfasi speciale” nel gruppo Courage to Refuse, dice Noam, “è di provare a parlare alla corrente tradizionale nella società israeliana. Noi siamo soldati, ufficiali e riservisti, ciò che la gente qui chiama sale della terra, quindi a volte è più facile che le persone ci capiscano. Stiamo provando a rendere i refusenik più facili da digerire per la società israeliana”.

Noam sostiene che lui e gli altri refusenik sono “disposti a servire nell’Idf solo per questioni di difesa, ma non ad attraversare la linea verde [il confine dello Stato Israeliano nel 1967] o a compiere niente che abbia a che fare con l’occupazione”.  
Pochi giorni dopo l’intervista abbiamo appreso che Noam è stato prima interrogato dalle autorità militari e poi imprigionato per tre giorni senza il diritto ad un avvocato. Ora, a differenza degli altri refusenik, Noam è in attesa di essere processato da una Corte militare dove rischia anche un massimo di due anni di galera. Secondo lui questo trattamento è dovuto al fatto che qualche giorno prima della sua apparizione in tribunale, il 20 gennaio, abbia pubblicato un suo articolo nel sito internet di uno dei giornali più ampiamente letti in Israele, Yedioth Ahronoth, pubblicamente denunciando l’azioni del proprio governo a Gaza.      

Una guerra contro i civili

Molto simile a quella di Noam è la storia di Haim Weiss, un altro dei membri fondatori del gruppo Courage to Refuse ed ex-capitano delle forze corazzate dell’esercito israeliano. Lo abbiamo incontrato in un caffè poco distante dall’università ebraica di Gerusalemme.  Anche Haim, 39 anni e padre di tre figlie, ha ricordato il “processo” che lo ha portato a diventare un refusenik.

Attualmente è professore di Letteratura ebraica antica all’università di Be’er-sheba, città nel sud d’Israele ultimamente raggiunta dai razzi sparati da Hamas dalla striscia di Gaza. Ciò nonostante non nasconde il suo più ampio rigetto per l’ultima avanzata militare israeliana nella Striscia: “Non credo che quello che è accaduto a Gaza sia vicino alla definizione di crimini di guerra – dice con chiaro sdegno – Non c’era una guerra li, non abbiamo combattuto contro soldati, ma contro donne e bambini. L’aviazione ha distrutto la striscia di Gaza, e solo dopo è entrato l’esercito di terra.
La maggior parte delle nostre perdite sono state causate dal fuoco amico, e che sia chiaro mi dispiace enormemente per ognuno di loro, ma questo è accaduto perché non c’era una vera guerra a Gaza”.

“Il concetto che si possa uccidere quante donne e bambini si voglia in modo di non rischiare la vita dei nostri soldati – continua – non ha mai fatto parte del dialogo morale all’interno del nostro esercito. Ma durante la seconda guerra in Libano [2006], e specialmente durante questa [a Gaza], non mostriamo neanche vergogna e dichiariamo apertamente e con franchezza che uccideremo quanti civili saranno necessari per mantenere in vita i nostri soldati. Quanti bambini palestinesi siamo disposti a uccidere per salvare una vita?”.

Gli aspetti che più di qualsiasi altra cosa hanno indotto Haim a dissociarsi dall’esercito sono gli eventi che lui associa ad una specie di “guerra tribale” tra loro ed il nemico. L’attacco ed il contrattacco, il ciclo incessante di violenza, le “rappresaglie” dell’esercito israeliano che secondo lui non hanno alcun senso a parte il “mostrare chi è che comanda” nei territori. Avendo firmato la lettera di Courage to Refuse nel 2002, un anno più tardi fu comunque costretto per l’ultima volta a prendere parte ad una missione dell’esercito dopo l’assassinio del ministro Rechavam Ze’evi da parte di alcuni militanti palestinesi. “Siamo entrati a Betlemme con i carri armati”, ricorda (precisando però che lui non prese parte nelle sparatorie ma che era il suo reggimento a condurre l’incursione). “Iniziammo a sparare su tutto, non credo che uccidemmo qualcuno ma abbiamo distrutto tutte le strade e vari edifici”.

“Comunque credo che la cosa più difficile sono i posti di blocco. Stare lì ogni giorno impedendo ai palestinesi di avere una vita normale e decente senza alcuna buona ragione è difficile da giustificare. I posti di blocco sono lì principalmente per difendere le colonie, non Israele”, afferma Haim, precisando che per lui “c’è un enorme differenza tra i due: proteggere Israele è una buona causa, ma proteggere le colonie che sono illegali secondo qualsiasi definizione del diritto internazionale non lo è, e io non sono disposto a prendervi parte”.
 
Haim Weiss ha servito come ufficiale in commando di uno dei checkpoint più grandi nei Territori occupati che si trova sulla strada per Hebron. Dice che “è impossibile essere lì e sperare di fare la cosa giusta, l’unico modo per fare la cosa giusta e non essere lì affatto. Non parlo delle cose grandi, come questa guerra [a Gaza], mi riferisco a cose come impedire alle donne incinta di raggiungere l’ospedale, e anche se i miei soldati provavano a fare del loro meglio in circostanze difficili questo non è abbastanza; non basta essere cortesi o gentili, la gentilezza non aiuta, non aiuta noi come non aiuta loro”.  

Rispondendo ad una domanda sulla reazione della società israeliana alle attività di Courage to Refuse, Haim lascia trapassare un accenno di sconforto nel dichiarare che lui, assieme agli altri fondatori del gruppo, pensarono inizialmente “che la gente ci avrebbe rispettato perché facevamo parte del sistema” e che “saremmo potuti rimanere nella corrente tradizionale del Paese” anche dopo la decisione di diventare refusenik. Tuttavia, afferma oggi, “era una fantasia. Courage to Refuse è diventato famoso solo per due mesi, dopodiché ci hanno subito etichettati come membri dell’estrema sinistra e quindi esclusi dal discorso politico. Dopo quei due mesi nessuno sentiva parlare di noi; abbiamo sprecato quel poco credito politico che avevamo come ex-soldati, e ora nessuno dei media israeliani vuole parlare con noi. “Ma alla fine hanno visto le nostre lettere con il numero di firme sempre crescenti che le accompagnarono, e questo è comunque già qualcosa”.

Tornando al conflitto attuale tra Israele ed Hamas, che descrive come una “orribile organizzazione terroristica”, Haim dichiara con convinzione “che non si può pensare di combatterli uccidendo centinaia di civili innocenti; questo non risolverà il problema perché prima o poi, tra due, cinque o anche otto mesi ricominceranno a sparare e il rituale si ripeterà”. Tutto questo – afferma Haim – si può paragonare a “dei bambini che litigano nell’asilo su chi ha iniziato prima. Dobbiamo capire cosa vogliono, alcune delle loro richieste non sono irragionevoli; dobbiamo trovare modi per parlare con loro, non c’è altra soluzione”.

La pace impossibile

Nel chiedere ad entrambi gli intervistati di descrivere le loro paure e speranze per il futuro, Haim Weiss dice di “volere che entrambi le parti posino le armi per una settimana”, sperando che questo possa innescare un dialogo tra loro. “Spero che l’America si assumi le proprie responsabilità – aggiunge – deve assumere il ruolo del fratello maggiore nel limitare la pazzia di quello minore [Israele]”.

Noam Livne d’altro canto appare più pessimista nel dichiarare che “al momento non appare esserci nessuna speranza per Israele di diventare un paese normale”, aggiungendo che la sua speranza “è che nel futuro ci sia speranza”. “La gente qui [in Israele] – dice – davvero non crede nella possibilità di vivere in pace. Questo è terribile per me, perché non ho nessuna voglia di vivere qui se davvero è cosi. La mia paura è che la democrazia israeliana si stia disintegrando”.       

* per Osservatorio Iraq


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