(Italiano) “Va’ pensiero, storie ambulanti.” Collettivamente memoria 2014. Aosta 9 maggio 2014

ORIGINAL LANGUAGES, 19 May 2014

Silvia Berruto – TRANSCEND Media Service

“Va’ pensiero. Storie ambulanti” di Dagmawi Yimer. Prima valdostana ad Aosta

Italy, Aosta Valley, Aosta
Aosta 9 maggio 2014

Per non trovarsi all’appuntamento del dare e del ricevere
senza aver nulla da portare
Mohamed Ba
Ad Aosta c’è stata la prima valdostana del documentario “Va pensiero. Storie ambulanti” del regista Dagmawi Yimer nell’ambito del progetto culturale Collettivamente Memoria 2014 e dell’iniziativa in progress 12 città contro il razzismo promossa dall’Associazione nazionale Prendiamo la Parola.

“Va’ pensiero, storie ambulanti” è il racconto, lucido e struggente, di due aggressioni razziste avvenute a Milano e a Firenze e del tentativo di ricostruzione che ognuno degli aggrediti, sopravvissuti, sta tentando di agire su di sé, pur nella difficile convivenza con l’impossibilità di lavorare e con l’incertezza quotidiana, sempre presente, di rivivere, attraverso sguardi o gesti, il momento dell’aggressione.
Nella narrazione delle loro esperienze i tre protagonisti esplicitano, nonostante l’aggressione subita e malgrado tutto, la speranza di continuare a vivere in Italia.
“Sono venuto qui per lavorare non per fare la guerra” dice Cheick.
“Ma non so neppure come si chiamava. Mai visto prima” dice Mor
“Io vorrei seppellire questa storia e rinascere” dice Mohamed.

Mohamed Ba è stato accoltellato a Milano il 31 maggio 2009. In pieno giorno.
Il 13 dicembre 2011 Mor Sougou, Cheick Mbengue e Mustapha Vieng furono raggiunti dai colpi di pistola sparati nel gruppo degli ambulanti senegalesi dal neonazista toscano Gianluca Casseri a Firenze.
Morirono Samb Modou e Diop Mor.
Mustapha Vieng è rimasto paralizzato.
Mor e Cheick non possono ancora lavorare.

Mohamed Ba, attore e autore teatrale, musicista e formatore con Karim Metref, giornalista e scrittore e membro di Prendiamo la parola, hanno presentato il film in prima assoluta in Valle d’Aosta.

Mohamed è uno dei tre attori, interpreti di se stessi, del documentario-testimonianza.

La proiezione del documentario è stata una delle ragioni irripetibili per incontrare e conoscere uomini veri: i miei fratelli Mor e Cheick, per ora in versione filmica, e mio fratello Mohamed Ba, dal vivo.

Dag e tutte e tutti i realizzatori del film, per ora in differita, che cito volontariamente per completezza.

Regia e fotografia: Dagmawi Yimer
Montaggio: Lizi Gelare
Musiche: Veronica Marchi, Nicola Alesini, Madya Diebate, Alvaro Lanciai
Montaggio audio: Marta Billingsley
Correzione colore: Vincenzo Marinese
Produttori esecutivi: Giulio Cederna, Alessandro Triulzi
Produttori associati: Lizi Gelber, Alvaro Lanciai
Una produzione: Archivio Memorie Migranti.
Con il sostegno di: Fondazione lettera27 e Open Society Foundations
Con il patrocinio del Consiglio dei Ministri – Ministro per l’Integrazione
Con il riconoscimento dell’Unar
In collaborazione con: Associazione dei familiari delle vittime di Piazza Dalmazia, Amici di Giana, AAMOD – Archivio Audiovisivo del movimento operaio e democratico, ARCI, Circolo Gianni Bosio, Metis Africa, Nigrizia Multimedia, Officina Cinema Sud-Est, Prendiamo la parola
56’, colore; italiano con sottotitoli per il wolof e versione con sottotitoli in inglese; formato: Blue Ray, DVD; Aspect ratio: 16:9; immagine: HDV; sound: 5:1.

Collettivamente Memoria sin dalla prima edizione (2014 – settima edizione) ha dato ampio spazio agli incontri-testimonianza sulle migrazioni e sulle lotte contro le discriminazioni.
Per questo ha fortemente voluto tra i suoi co-organizzatori permanenti Glob011, con la presenza live ad Aosta di Vesna Scepanovic Murat Cinar e Marco Anselmi e A.N.S.I. (associazione nazionale stampa interculturale) sempre rappresentata della sua presidentessa Viorica Nechifor.
Le donne sono sempre protagoniste: sorelle, amiche e compagne di viaggio in un contesto nel quale le donne e gli uomini citati intendono ac-compagnarsi nella storia comune che li lega reciprocamente.
Così Giornalisti contro il Razzismo (GCR) con Lorenzo Guadagnucci – uno dei co-promotori del gruppo informale di giornalisti composto da Beatrice Montini, Zenone Sovilla e Carlo Gubitosa – accompagna sempre CM.

Quest’anno, a causa di un rinvio di data non attribuibile alla mia organizzazione, alcuni dei testimoni non hanno potuto essere fisicamente presenti. Lo sono stati attraverso contributi, tra loro stilisticamente diversi, apprezzabili in questo testo più sotto.
La regia e la fotografia del documentario “Va pensiero. Storie ambulanti” è stato curato da Dagmawi Yimer.
Regista di origine etiope Dagmawi ha vissuto su di sé il dramma della migrazione. Dopo un lungo viaggio attraverso il deserto libico e il Mediterraneo, Dag sbarca a Lampedusa il 30 luglio 2006. A Roma dopo aver partecipato ad un laboratorio di video partecipato nel 2007 realizza insieme ad altri cinque migranti il film Il deserto e il mare. Sarà co-regista con Andrea Segre e Riccardo Biadene di Come un uomo sulla terra, il documentario “scomodo” che non trova distribuzione, come ricorda la stampa alternativa dell’epoca.

Venerdì mattina 9 maggio Dag ha scritto :
“Cara Silvia vi Auguro una bella proiezione e spero che vada tutto bene” e poi ha allegato le note di regia.
Le stesse parole che avevo scelto, perché mi parevano irrinunciabili, per il testo dell’invito alla serata.

“Géwel, in Wolof, significa fare un cerchio intorno a una persona.
Il griot è colui che ha il dono della parola e tramanda le memoria del gruppo, è un poeta, un cantastorie. Attraverso le sue metafore, il griot accompagna il racconto degli avvenimenti partendo da un passato remoto che sembra continuare a perseguitare le vittime.
L’aggressione che hanno subito i protagonisti del film mi colpisce non solo in quanto tale, ma perché rivela la fragilità della condizione migrante in Italia.
Non volevo fare scoop, ma raccontare le emozioni, le paure, i tentativi di rinascita, di chi, da un giorno all’altro, scopre di essere vittima di un odio omicida soltanto per il proprio colore della pelle.
Un film che aiuti il ‘migrante’ ad uscire dall’anonimato e l’opinione pubblica a riscoprire l’uomo dietro la vittima”. 
Dagmawi Yimer

Il film è stato proiettato a tratti in un silenzio assordante.
Venti persone in tutto in sala. Con buona pace dei detrattori di CM.
Anche se è stato così. Ovvero è su questi numeri e attraverso proposte inedite di questo genere, occasioni di formazione e aggiornamento per molti, di acculturazione per tutti, che Collettivamente Memoria ha registrato e superato le 2500 presenze.

L’aria verdiana “Va’ pensiero” dall’imponente forza del coro classico si fa, per la voce stupenda di Veronica Marchi che scandisce le sequenze legate alle storie e alle aspirazioni personali dei protagonisti, commento lieve, misurato e toccante per sottolineare l’ineludibile relazione esistente, per sorte, fra individuale e collettivo.

Presentato da Karim Metref Mohamed ha preso la parola.
Amed ha pronunciato parole miti, dette con dolcezza, ma determinate.
“La mia vita in Italia l’ho sempre dedicata ad un impegno quotidiano, attimo dopo attimo, nella ricerca di un terreno condiviso dove tutti gli uomini possono camminare mano nella mano, al di là del passaporto, del credo religioso.

Mohamed restituisce con lucidità lo spaccato di un”Italia che sembra dimentica delle sue origini culturali. Parla di un’Italia di un tempo che dal Rinascimento in poi è stata “un faro non soltanto per l’Europa ma per il mondo intero”

Racconta del suo arrivo in Italia e dell’Italia di cui si era innamorato.
Quell’Italia che Mohamed definisce un “museo a cielo aperto, in cui ogni strada, ogni borgo, ogni piazza alberga dentro di sé un patrimonio che non si può nemmeno stimare”.

Inizialmente il percorso di Mohamed è segnato dalla ricerca della bellezza inseguita soprattutto nelle bellezze architettoniche delle città ma infine ritrovata nelle virtù e nelle qualità degli uomini che le abitano.

Mohamed parla di appiattimento culturale, di crisi non solo economica ma strutturale, dell’assenza di una cultura che premi il merito, della mancanza di un investimento in prospettiva. Con lucidità percepisce la presenza di una forte cultura dell’immagine radicata nelle menti giovanili. E’ da questa analisi che scatta la lotta di Mohamed contro l’inaccettabile deriva e il tentativo di spronare tutti coloro che incontra a “rispolverare il patrimonio storico e culturale prima del confronto
“Perché nell’incontro fra persone diverse in realtà sono i valori culturali di cui sono portatrici che si incontrano.
Ma se da una parte si ha la consapevolezza di chi si è dall’altra parte si ha il nulla. E l’altro per non subire l’imbarazzo del vuoto culturale fa prevalere la ragione della forza.
Ecco brevemente splegata la ragione del razzismo ma soprattutto l’incapacità di interazione fra persone su basi paritarie.”

Mohamed cita Dante Alighieri. Funzionalmente. “Non voglio dover dare ragione a Dante quando dice “fatti non foste per viver come bruti. ma per seguire virtude e conoscenza.”

Mentre Amed parlava mi risuonavano forti altre parole che desidero segnalare.

… io so chi sono e da dove vengo
perché dovrei temere di incontrare l’altro. Mal che vada rimango me stesso.
Ma se uno teme di incontrare e di confrontarsi con l’altro
forse all’appuntamento del dare e del ricevere
non ha niente da portare

e perciò la cura è semplicemente questa favorire momenti di confronto
di dialogo
ma anche di scontri purché ne esca una via maestra che è quella dell’interculturalismo
dove ognuno sente di dare qualcosa all’altro
dove ci si arricchisce a vicenda per un’ideale di una società più giusta più equa

dove l’uomo sarà al centro di ogni nostra azione
dove ognuno si sentirà una perla
la cui importanza avrà senso considerando l’intera collana … “

Mohamed a questo punto si apre.

“Ho sempre pensato che lasciare tutto nel dimenticatoio fosse il rimedio migliore. Ma mi sbagliavo. Perché le ferite fisiche si curano anche in tempi brevi ma sono quelle dell’anima che hanno bisogno di maggior tempo.
Il tempo passa ma in realtà rimane tale e quale.
E perché nella nostra solitudine quel tatuaggio che ti trovi addosso non puoi fare a meno di vederlo.
La difficoltà è di considerarlo parte di me.
E su questo faccio fatica.

E non provo nemmeno rabbia verso chi mi ha procurato quel tatuaggio. Provo pena.
Provo pena perché mi muovo con la convinzione non conosca sia semplicemente un libro che aspetta di essere letto. E io non voglio privarmi di quella lettura. Sarebbe davvero sciocco privarsi di quella lettura.
Mohamed ha scritto al suo aggressore una lettera aperta : “qualcosa mi lega a quella persona per tutta la vita.
Per le sue motivazioni profonde, sbagliate sì ma che hanno il loro senso.”

Di fronte a quest’uomo, alla sua cura per la vita, al suo attaccamento alla vita anche dell’altro si deve rendere riconoscimento e omaggio.
E lo voglio fare personalmente con un lungo interminabile abbraccio.
Così come bisogna rendere omaggio alle memorie individuali ma soprattutto collettive per non giungere all’appuntamento del dare e del ricevere senza aver nulla da portare.
Per questo le memorie significano così tanto e sono così importanti per il progetto culturale Collettivamente Memoria.

Collettivamente Memoria promuove incontri, scambi, immaginari altri, tentativi e proposte per futuri collettivi da costruire.
Utopie concrete.
Felici contaminazioni inclusive.

Fratello Mohamed ti ringrazio di essere stato con noi ad Aosta questa sera.
Ringrazio il fratello Dag.
Ringrazio i miei fratelli e le mie sorelle Karim, Viorica, Murat, Lorenzo, Aleksandra, Imane, Elena e Gabriele, Francesca.

Penso infine che dobbiamo ripensare alcune categorie tra cui democrazia e vita collettiva alla luce dei contesti mutati.
Dobbiamo nel frattempo opporci a leggi “discriminatorie” e inaccettabili. Cito il provvedimento per la raccolta delle impronte digitali, anche dei minori rom del 2008, che non ebbe nulla da invidiare alle leggi razziste italiane del 1938 e che resterà persempre una delle incancellabili sospensioni di democrazia avvenute in Italia.
Ricostruire spazi di protagonismo politico allargati e onnicomprensivi per un empowerment individuale e collettivo per una vita migliore è ormai un irrinunciabile imperativo categorico.
Per tutti.

Con rispetto,
silvia

silvia berruto

I contributi

Ciao Silvia, ecco

Quest’anno non sono con voi ad Aosta e allora voglio mandarvi un messaggio da e su Firenze, la città nella quale vivo da qualche anno. Questa città ha responsabilità dirette per un certo degrado dei diritti civili nel nostro paese. L’amministrazione locale fu parte attiva di quella brutta stagione che possiamo definire delle ordinanze dei sindaci contro la presunta emergenza sicurezza.

Era il 2007 e si era nel pieno della campagna politica e mediatica che strumentalizzava il fenomeno migratorio, indicando con toni allarmistici quanto infondati il rischio che il paese correva sotto il profilo della criminalità. Era un modo per invocare legge e ordine e guadagnare consenso lavorando su incertezze e paure popolari, alimentate ad arte. Un classico della destra politica autoritaria.

Fu un fatto tragico, e destinato ad avere effetti di lunga durata, per perdurano ancora oggi, la scelta delle forze progressiste e di centrosinistra di partecipare attivamente a quella campagna, facendo concorrenza alla destra sul suo stesso terreno, a suon di allarmi, pacchetti sicurezza, ordinanze di divieto dirette verso immigrati e poveri cristi.

Proprio Firenze fu teatro della svolta, con l’ordinanza sui lavavetri firmata dall’assessore Graziano Cioni e dal sindaco Leonardo Domenici. Un’amministrazione di centrosinistra, un assessore e un sindaco provenienti dal Pci, mettevano all’indice poche decine di persone povere che cercavano di guadagnarsi da vivere offrendo un piccolo servizio di strada, ad alcuni semafori della città, in cambio di una moneta. Si disse  – sfidando il ridicolo – che quei pochi lavavetri mettevano a repentaglio la sicurezza degli automobilisti e che il valore della legalità andava anteposto a tutto.

Quell’ordinanza diventò una bandiera di una sinistra che faceva suoi i temi, gli slogan, le prospettive delle destra. L’ordinanza fu imitata da molti sindaci che fin lì avevano esitato, coscienti di pestare un terreno estraneo storicamente alle forze democratiche e progressiste, forze che hanno sempre saputo distinguere nella condizione umana della povertà, dell’esclusione, della marginalità un tema dell’impegno civile e politico, e non un elemento di fastidio per la maggioranza bianca, benestante, insofferente alla vista degli esclusi.

Stiamo ancora pagando quella svolta, che ha prodotto effetti gravi e profondi sul piano simbolico e del pensiero, oltre che su quello più direttamente politico. Col tempo si è perso ulteriore terreno, perché una cultura dei diritti, una prospettiva di giustizia sociale, una visione non provinciale della vita pubblica e privata non si improvvisano.

E’ così che il mese scorso, sempre a Firenze, il Comitato per l’ordine pubblico – composto da prefetto, questore, sindaco e altre figure istituzionali – ha deciso di avviare un servizio di pattugliamento all’interno della stazione Santa Maria Novella, non già per perseguire o impedire reati, bensì – dichiaratamente – per allontanare quei mendicanti che chiedevano l’elemosina ai viaggiatori nei pressi delle biglietterie automatiche.

Il Comitato per l’ordine pubblico, nel comunicato che spiega la scelta, ha precisato che nessun reato è stato commesso – chiedere l’elemosina non è illegale, almeno per ora – e ha quindi giustificato la scelta con queste testuali parole: “Non tanto sotto il profilo dei reati, non è stato registrato infatti un aumento né di furti né scippi, quanto piuttosto il ripetersi verso i viaggiatori di comportamenti molesti, talvolta anche arroganti, ma che non sconfinano in ambito penale, da parte di un gran numero di mendicanti, in particolare di etnia rom”. Più avanti si parla di “vivibilità e decoro” e di salvaguardia della stazione come “biglietto da visita della città”.

Non deve sfuggire la gravità di simili affermazioni. Si schierano le forze dell’ordine perché i viaggiatori non siano infastiditi, si agisce per allontanare dalla vista persone considerate “moleste” perché povere e si arriva al punto di usare come argomento valido a motivare l’intervento il fatto che i mendicanti in questione siano di “etnia rom”, dove il termine etnia è usato per evitare il più scomodo “razza”, ma con lo stesso intento, e dove la scelta di indicare l’appartenenza culturale delle persone in questione ha un chiaro e gravissimo significato discriminatorio.

Questo comunicato è valso al Comitato per l’ordine pubblico una segnalazione all’Unar, ma è facile prevedere come finirà: chi oserà contestare al prefetto, al questore, al sindaco il loro linguaggio – e il loro pensiero – apertamente discriminatori?

Questo avviene a Firenze, a riprova che il senso comune, anche in seno alle istituzioni, ha subito una grave degradazione della sua qualità, con il risultato che gli stereotipi negativi, i pregiudizi, le pratiche discriminatorie e gli stessi concetti più tossici della retorica della sicurezza – il degrado, il decoro eccetera – trovano una potente amplificazione.

Quale sia la strada da seguire, a questo punto, a me sembra chiaro: si tratta di ricostruire dalle fondamenta una cultura democratica tout court, rammentando a chi li ha persi per strada che ci sono valori e idee che non possono e non devono tramontare: in testa l’uguaglianza. Sono convinto che riusciremo a concretizzare questo impegno nella misure in cui saremo in grado di ascoltare gli altri, i diversi da noi e di imparare da chi ci sta vicino.
Un caro saluto da Firenze
Lorenzo Guadagnucci

È dal 2011 che l’associazione Dora-Donne in Valle d’Aosta segue con attenzione e apprensione le vicende di un gruppo di richiedenti asilo che, a seguito della cosiddetta “Emergenza Nord Africa” originatasi dalla guerra in Libia, sono stati “accolti” nella nostra Regione. Oggi, a fronte di una vera e propria fuga di circa l’80% di quel gruppo di ragazzi di diversa provenienza – Ghana, Burkina Faso, Nigeria, Mali, Bangladesh – verso destinazioni, e destini, a volte legali a volte no, rimangono circa 12 rappresentanti di quell’esodo drammatico e violento, profondamente mal gestito e mal compreso dalla politica e dalle istituzioni che erano state chiamate ad elaborare risposte.
Oggi – è incredibile doverlo ancora scrivere – la situazione continua a essere gestita sotto la spinta di una pretesa “emergenza”; dopo più di due anni non si è stati capaci, o non si è voluto, elaborare una strategia strutturale per agevolare l’inserimento attivo nel tessuto sociale e culturale della Regione di un gruppo di giovani pronti a ricominciare una nuova vita lontano dalle persecuzioni che avevano subito in quanto “neri”, dalle numerose violenze, dalla guerra che ancora li opprimeva in un paese, la Libia, dove avevano cercato fortuna solo pochi anni prima.
Grazie al lavoro degli assistenti sociali di Quart e di Aosta, lasciati però da soli, insieme allo “Sportello migranti”, a gestire questi ultimi strascichi della complessa vicenda, molti dei ragazzi hanno trovato un lavoro, seppur con contratti a breve o attraverso la formula dei “lavori socialmente utili”. L’emergenza che ancora li assilla, però, è quella della casa. Molti di loro sono ancora “ospiti” di strutture in capo alla Caritas di Aosta, una sistemazione perennemente messa in discussione, che viene rinnovata di sei mesi in sei mesi, ponendo forti ipoteche sulla possibilità stessa di avere una vita autonoma e produttiva. A tutti questi “reduci” l’Assessorato regionale alla Sanità ha negato la possibilità di accedere alle graduatorie per le case popolari, in tempi di crisi, così come ci raccontano politici e mezzi di informazione, un diritto basilare viene messo in discussione e viene incredibilmente declassato e trattato come un bisogno accessorio.
Per questi motivi Dora continua a monitorare la situazione lavorativa e abitativa e, in ultima analisi, esistenziale, di Sirif, Moustapha, Mori, Zeidi, Edward, Dominique, Anouar, Daniel, Lamine, Michael e Adam perché non siano relegati, come spesso succede, a vivere un’esistenza ai margini delle nostre città e dei nostri paesi, come fantasmi che le istituzioni nascondono dentro il limbo delle varie forme di assistenza in attesa che siano risucchiati, forse, da qualche rete criminale o che acquistino un biglietto per Parigi o Berlino e andare a ingrossare le fila dei clandestini senza futuro che abitano le periferie della nostra opulenza.

Francesca Schiavon
Ass. DORA-Donne in VdA
doradonneinvda@gmail.com
Buona sera a tutti, io mi chiamo Aleksandra e in queste poche righe vi racconto la mia storia.

Sono nata a Maglaj una piccola cittadina della Bosnia, all’età di tre anni, a causa della guerra, io e la mia famiglia siamo fuggiti in Italia, dove fin da subito siamo stati accolti molto bene.

L’affetto e l’apertura della gente mi hanno fatta sempre sentire a casa.

Ho capito di non essere italiana al compiere dei miei 18 anni, nonostante abbia frequentato tutte le scuole e abbia pressoché vissuto tutta la mia vita qui per lo Stato ero un extracomunitaria, non lavorando ma studiando, mi era concesso un permesso di soggiorno da rinnovare ogni 31 dicembre.

L’anno scorso dopo un attesa di più di due anni, mi è stata recapitata la raccomandata molto speciale.

Aprendola devo confessare di essermi anche commossa dalla grande gioa di apprendere che anche per lo Stato ero diventata una Italiana!

Per me è stato un completamento perchè ora sono ciò che ho sempre sentito di essere!
Aleksandra Mitrovic
Ma io dove dormo
Ciao a Silvia e un saluto a tutti gli ospiti e alla platea. Purtroppo non possiamo essere presenti, e ce ne rammarichiamo. Ci sarebbe piaciuto tanto. Vuol dire che ci unirà il cyberspazio, portando ugualmente il nostro contributo, qui dalla terra dei Gonzaga.
Porteremo una piccola grande storia, nata con la fatica, perseguita con la tenacia, ormai quasi terminata con una sorpresa, di quelle inaspettate che ti lasciano in bocca un sapore di buono
La potremmo intitolare “la grande sorpresa di un granello di polvere”… tanta è l’umiltà di ciò che andiamo a raccontare.
LA GRANDE SORPRESA DI UN GRANELLO DI POLVERE
Siamo all’inizio di novembre, i primi giorni di umidità arrivano in città, e con loro il tempo del rinnovo del permesso di soggiorno umanitario dei nostri nuovi amici…. i profughi libici, quelli che sono andati per le strade d’Europa a cercare un po’ di lavoro nero, o per le strade di Foggia a cercare qualche caporale e una baracca di plastica.
Si sa già… non avranno modo di dormire in albergo, avranno bisogno di supporto amministrativo, una doccia, un posto. In Provincia, come nei comuni vicini al capoluogo non si respira un’aria di prosperità, ma i ritorni ci interpellano. Noi non ci sottraiamo.
Cerchiamo il supporto di tutti, la prefettura, la questura, L’Asl, la Caritas, le associazioni più sensibili, il comune capoluogo e le realtà alternative, nelle quali nutriamo una grande aspettativa. Dopotutto avevamo appena organizzato una mostra con le realtà associative più marginali, nel cuore del Festival Letteratura. L’avevamo chiamata “figli di un Dio minore”, e nutrivamo in loro grandi speranze.
Periodicamente ci riuniamo cercando disperatamente un tetto per evitare ai profughi di dover dormire fuori. Abbiamo chiesto ovunque.. .ma nulla. Ci si rimbalzava da un’ipotesi all’altra.. con una tenacia quasi insensata, visti i continui rifiuti. Dalla realtà mantovana non usciva praticamente niente… una vecchia scuola, una palestra. Nulla. Solo chi è avvezzo a vivere nella precarietà sa offrire ciò che ha. Una famiglia sinta e una terremotata mettono a disposizione le loro roulotte. Ma nessuno il terreno. Tanto meno le aree attrezzate in città. Figuriamoci… roba da danneggiare il turismo. La cosa comunque ci fa riflettere. Il gesto più nobile è venuto da chi possiede meno. Abbiamo prodotto una cartolina fatta circolare ovunque per chiedere aiuto. Nulla. Nel frattempo capiamo che tante persone, non solo profughi, dormono fuori, in stazione, nei treni fermi, in case disabitate
Finché la Croce Rossa ci propone una tenda riscaldata, di quelle usate per il sisma nei campi. Di certo un luogo molto povero, con le brande e coperte spaiate raccolte in giro. A vederla ci mette tristezza e quel senso di precarietà misto a vergogna per non potere offrire di meglio. Noi cerchiamo di contribuire. Non abbiamo quasi niente, ma mettiamo a disposizione i nostri locali per passare le giornate al caldo e prepariamo tutte le mattine la colazione. Ma vi immaginate… negli uffici dell’ Ente Provincia. Quasi di nascosto, da carbonari. E offriamo l’opportunità anche alla Caritas e al Comune, che non mandano nessuno
Ma qui il piccolo miracolo.. Nella tenda si costituisce una piccola comunità solidale, in grado di contagiare positivamente anche i volontari così “per bene” dell’istituzionale Croce Rossa. “I ragazzi sono bravi e gentili” ci dicono. La sera andiamo a fare visita e un volontario ci accoglie con grande cordialità. Noi e loro.
La tenda grigio verde può rimanere un solo mese, ma i giorni passano, e nessuno, per primo il giovane presidente della CRI se la sente di chiudere. I giorni passano ed è già primavera. Nel frattempo alcuni nostri ospiti hanno trovato lavoro e una casa vera, altri hanno proseguito il loro cammino per le strade d’Europa a cercare un po’ di lavoro nero, o per le strade di Puglia a cercare qualche caporale e una baracca di plastica. E la piccola piramide è ancora lì, ormai poco popolata, col suo volto precario.
Il vento che si respira ci racconta come la vita si possa accontentare dei minimi termini per perpetuarsi, sopravvivere e far fiorire cose belle, come un’accoglienza gentile la sera, un grazie inaspettato, una ripartenza dopo il riposo.

Buon cammino a tutti
Elena e Gabriele

Una casa di cartone

httpv://www.youtube.com/watch?v=Wv6P4npqrqk

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