(Italiano) L’arte della Pace (Review-Recensione)

ORIGINAL LANGUAGES, 16 Feb 2015

Antonino Drago – TRANSCEND Media Service

L’arte della Pace” di Alberto L’Abate, ovvero la crescita dei movimenti di base dallo spirituale al politico.

Come sostituto del sostituto (Rocco Altieri) dell’autore (Alberto L’Abate) del libro da presentare, occorre che innanzitutto mi presenti.

Con mia moglie Vanna abbiamo introdotto in Italia Lanza del Vasto, unico discepolo occidentale e cattolico di Gandhi; tornato in Occidente, dal 1948 ha fondato comunità nonviolente, chiamate dell’Arca. Egli le ha intese come il tipo di società adatta a realizzare un nuovo modello di sviluppo, di tipo gandhiano, in grande anticipo così sul successivo fiorire di proposte per la decrescita e per modelli di società alternative dal punto di vista energetico, ecologico, globalistico, orientale. Personalmente, ho insegnato critica delle scienze all’Università di Napoli e argomenti di nonviolenza politica alle Università di Pisa, di Firenze e a quella Transcend di Galtung (online).

Poi debbo ricordare Rocco Altieri, già fondatore del Corso di laurea in Scienze per la Pace dell’Università di Pisa e ora dedito, attraverso le edizioni Gandhi qui di Pisa, alla diffusione le opere fondamentali della cultura della nonviolenza.

E giungiamo all’autore del libro, Alberto L’Abate. Più che ottuagenario (e perciò impedito a venire a questo incontro), è ancora un bell’albero verde che produce libri importanti. Da giovane, ha generosamente seguito l’impulso di andare in Sicilia ad aiutare Danilo Dolci, che stava scrivendo una pagina della storia della nonviolenza: ha dimostrato per primo che anche in Europa era possibile lottare non violentemente assieme alla popolazione per la giustizia sociale. Poi Alberto, amico di Capitini, ha insegnato all’Università di Firenze e di Ferrara una materia che gli permetteva di spaziare su argomenti nuovi per l’accademia, come la nonviolenza. Ha sempre unito la teoria con la prassi di militante nonviolento; è stato: fondatore del gruppo nonviolento fiorentino; sostenitore del decentramento amministrativo degli anni ’70 per indirizzarlo in senso popolare; “pericoloso perturbatore dell’ordine pubblico” per aver fermato i treni per protestare contro la centrale nucleare di Montalto di Castro; formatore alla nonviolenza di tutti quelli che hanno frequentato la sua Casa per la Pace di San Gimignano, gli studenti dell’Università di Firenze nel periodo della “Pantera”, la gente arrivata a Comiso contro i missili nucleari, i partecipanti alle marce contro la guerra in Jugoslavia, quelli che si sperava sarebbero stati riconosciuti dallo Stato come formatori degli obiettori di coscienza (Corso di Firenze con la partecipazione dei massimi esperti mondiali); organizzatore di vari convegni internazionali per la pace (specie quella in Jugoslavia); obiettore alle spese militari; promotore dell’Operazione Kosovo, per sostenere la politica nonviolenta indicata dal leader locale Rugova, che lui ha appoggiato per due anni con una Ambasciata di pace a Pristina; presidente della rete IPRI (Istituto di Ricerca per la Pace)-CCP (Corpi Civili di pace). E’ grazie alla sua forte motivazione alla pace e alla nonviolenza che nel 2001 è riuscito a fondare un corso di laurea all’Università di Firenze col nome “Operatori di pace” (purtroppo ben presto cambiato in “Operazioni di pace” e poi nel 2009 praticamente soppresso dal Rettore). Ha ricevuto vari premi per la pace, anche in India.

Questo incontro ha scelto giustamente di presentare Alberto e il suo libro, perché la sua vita è un esempio di come unire spiritualità, etica e politica con quella continuità che ha insegnato la nonviolenza di Gandhi.

Ogni principio ben ordinato incomincia da se stessi. Per realizzarlo, si incomincia compiendo in se stessi un lavoro interiore, che però non può essere fine a se stesso; deve anche rivolgersi alle altre persone per progettare una trasformazione comune. Per questo motivo le regole e le leggi che ci si dà all’interno debbono esprimersi all’esterno con un impegno etico che coinvolga il prossimo e alla fine, in quella visione globale che ormai la vita moderna ci ha abituato, la società; e dove, per completare l’impegno, occorre saper fare politica.

Comunque, lo si voglia o lo si ignori, si fa sempre politica, anche quando ci si chiude nel privato della propria stanzetta. L’importante è che noi siamo coscienti della politica che facciamo e che quindi mettiamo in accordo le nostre intenzioni interiori, con l’etica delle nostre azioni, fino ad avere un progetto di intervento sociale che si inserisca in una precisa politica positiva globale. Si tratta allora di fare azioni sociali precise, magari azioni dirette (nonviolente), soprattutto per proporre e realizzare un “programma costruttivo” (o ricostruttivo delle istituzioni ingiuste o mal fatte). Solo così si può superare la ingenuità di chi, procedendo con la semplice buona volontà, si affaccia sul mondo sperando che qualcosa cambi in meglio; ma non si sforza di capire come questo possa avvenire e quindi resta sospeso a mezz’aria mentre gli avvenimenti decidono loro quello che la gente è obbligata a vivere.

Questa strada dall’interiore al politico incontra una difficoltà di importanza cruciale, che la prassi politica dell’Occidente ha stabilito in maniera così forte che anche i Partiti dei lavoratori, che pure volevano una alternativa politica alla società occidentale, alla fine hanno ripetuto la stessa logica dei padroni: separare l’agire politico dall’etica (e ancor più dalla vita interiore).

Su questo punto l’Italia è famosa; ha dato la nascita a Machiavelli, che, per primo e più sottilmente di tutti, ha teorizzato che la legge della istituzione (Stato) si impone sull’etica personale. Poi Max Weber l’ha ripetuto in termini eufemistici: la etica personale (chiamata da lui “di principio”) deve sottostare alla etica della istituzione (chiamata da lui “etica della responsabilità”). Chi non lo fa è un primitivo, che non capisce il progresso moderno che fa vivere le persone dentro istituzioni sempre più potenti, che (quella dello Stato per prima) sono necessarie alla buona organizzazione sociale. Ma in effetti Weber ha scambiato gli aggettivi: è la istituzione che dà il principio autoritario, mentre la etica della responsabilità è sviluppata da ciascuno che deve gestire la propria vita; per cui si può e alle volte si deve obiettare all’etica imposta dall’istituzione in nome della responsabilità della (coerenza della) propria vita.

Proprio così Gandhi è andato contro questa esita politica machiavellica, che presuntuosamente il mondo occidentale ha imposto come l’unica possibile per essere efficaci in politica. Egli ha proposto quella innocenza (= non nuocere) che all’Occidente sembrava un sogno, possibile solo nel Paradiso terrestre: unire vita interiore, etica e politica in un tutto coerente e propositivo; e ci è riuscito fino al punto che le sue azioni e il suo progetto politico (non solo di indipendenza nazionale, ma anche di ricostruzione della civiltà dei villaggi) ha saputo convincere i compatrioti e anche gli avversari. Di fatto egli ha vinto il massimo impero coloniale che sia mai esistito nella storia (l’impero britannico comprendeva più di un terzo del mondo), guidando un intero popolo; che così ha aperto la strada a tanti altri popoli colonizzati, i quali nel giro di una generazione si sono liberati dal colonialismo politico di tutte le potenze occidentali.

Lanza del Vasto giustamente ha scritto che egli ha compiuto non i miracoli che ci vengono detti dei santi, ma dei “miracoli storici”, quelli ai quali nessuno era disposto a credere, perché “La storia è andata sempre così!”: “Una liberazione nazionale senza effusione di sangue, una rivoluzione sociale senza rivolta, fermare una guerra”;[i] e, possiamo aggiungere come miracolo preliminare, quello di far uscire 300 milioni di persone di una colonia dall’apatia e dalla passività, per assumere un’etica così impegnativa da combattere senza violenza una lotta contro un impero occidentale.

La politica spirituale di Gandhi è così entrata appieno nella storia dell’umanità. E’ possibile! Questa è la straordinaria novità storica di Gandhi rispetto al progresso occidentale della politica machiavellica.

Ma il mondo anglosassone ha subito tradotto il messaggio di Gandhi in novità di tipo tecnico (nuovi atteggiamenti relazionali, comportamenti lisci, influenze sociali calcolate psicologicamente, nuovi tipi di pressione sul sistema di potere),[ii] badando bene di separare la vita interiore dall’azione personale e in collettivo; così da liberarsi dalla tradizione gloriosa (ma “troppo religiosa”) dei gruppi pacifisti protestanti (Quaccheri, Mennoniti, Amesh, ecc.) e presentare la novità in termini “moderni”, compatibile con il quadro politico machiavellico esistente in Occidente; perché si pensava che altrimenti mai gli occidentali avrebbero accettato la nonviolenza gandhiana (con la sua “scoria religiosa”, dice un’opera recente).[iii]

Nel dopoguerra si è pensato questo anche in Europa, salvo che in Italia. Capitini, colui che iniziò la politica della nonviolenza in Europa, l’ha intesa non come separata dalla religiosità, ma anzi come una riforma di religiosità in senso universale, per arrivare ad una religiosità che fosse superiore storicamente a tutte quelle passate.

Anche Lanza del Vasto ha unito la nonviolenza con la vita interiore. Dopo essere stato da Gandhi come suo discepolo, ha ripensato daccapo il suo cristianesimo (Cattolicesimo) dando una interpretazione radicale dei testi sacri cruciali di questa religione; così da presentare la nonviolenza come una conversione, però non solo personale ma anche dalle istituzioni e quindi rivolta alla costruzione di una politica collettiva contro i mali strutturali del mondo.

Quindi la nonviolenza di Gandhi non solo ha fatto storia politica, ma fa anche storia del rinnovamento delle religioni.[iv]

Ma ancora oggi l’Occidente (e in particolare l’Università) si interroga se essa abbia senso razionale o se invece sia solo una emotività religiosa, al limite fanatica, che porta le persone a sacrificarsi senza efficacia.

Eppure dagli anni ’60 la nonviolenza ha introdotto delle novità intellettuali decisive che ne hanno chiarito il senso culturale e politico.

Il norvegese Johan Galtung ha sottolineato che la parola “pace”, da sola, è inadeguata; per capirla bene occorre qualificarla con un aggettivo. Una cosa è la “pace negativa”, cioè l’assenza di guerre (quella che viene stabilita dai trattati cosiddetti di pace) e una cosa è la “pace positiva”; la quale ha risolto in maniera consensuale un conflitto; in tal caso la parola “pace” ha un senso dinamico, perché è collocata in un processo di risoluzione di un conflitto; il cui risultato dipende tutto (per almeno uno dei partecipanti) dal rispettare dei vincoli etici o no; cioè agire non violentemente o no. Solo nel caso che si arrivi ad un consenso il risultato è positivo; nell’altro, soppressione o oppressione dell’avversario, è negativo.

Ancora Galtung ha introdotto. una distinzione decisiva per chiarire la comprensione della nonviolenza e della sua applicabilità. Partiamo dal dire che oggettivamente esistono tre tipi di violenze: la violenza interpersonale (ben nota a tutti: sia quella verbale che quella degli atti violenti), la violenza culturale (che impone il monopolio di una verità intellettuale parziale come se fosse l’unica possibile; ad esempio la pubblicità, la programmazione scolastica che esclude certe materie – ad es. logica, etica ed economia – e che fa vedere quelle che insegna sotto una angolatura sola – ad es. la religione come religione solo cattolica) e la violenza strutturale (ad esempio la disoccupazione, il sistema giudiziario e carcerario, il capitalismo, la finanza mondiale, ecc.). E’ chiaro che la nonviolenza deve atteggiarsi diversamente a seconda di ciascun tipo di violenza: una buona parola può essere utile nel primo ambito, ma è del tutto astratta nel terzo, quello strutturale. Così una obiezione di coscienza, che può essere molto efficace nell’ambito strutturale, nell’ambito personale è respingente e di solito è sproporzionata.

Il tutto ruota attorno al concetto di conflitto. Ma che cosa è un conflitto? Sempre Galtung ha saputo dare una definizione: è un A-B-C, cioè è tre cose assieme: Atteggiamenti, B come Behaviour cioè comportamenti, e Contraddizione (interiore). Se finora nella intellettualità occidentale il conflitto è rimasto oscuro, tanto da non studiarlo, è perché, essendo triplice, è una idea troppo complessa per il pensiero occidentale, che si è fondato sulle idee che, nate al tempo dei Greci, sono astrazioni di oggetti singoli (punto, retta, bello, buono, ecc; già il concetto di pace che è duplice, positiva o negativa, va oltre questa tradizione di pensiero). Se si vuole risolvere un conflitto non violentemente occorre tenere presenti tutte e tre gli aspetti A, B e C. In altri termini, risolvere conflitti ci fa crescere ad una superiore, capace di comprendere assieme la vita spirituale ©, etica (B) e politica (A) del nostro avversario, oltre che la nostra.

Un altro avanzamento è dovuto alla sapienza di tutti i grandi maestri della nonviolenza: Tolstoj, Gandhi, Capitini, Lanza del Vasto. Essi hanno sottolineato che le strutture sociali possono basarsi sulla mitologia di obiettivi astratti, sovrumani (la propria nazione sopra tutti, la propria civiltà superiore alle altre, la razza pura, lo Stato prima dell’individuo, il capitale prima degli uomini, le macchine prima della salute della terra e della gente, ecc.). Questi miti hanno formato un tipo di progresso che ha caratterizzato la storia dell’Occidente e oggi ci trascina senza che gli uomini possano capire dove si va a finire. Quei maestri della nonviolenza hanno avuto il coraggio civile di contrapporsi ad esso e di proporre uno sviluppo sociale alternativo, quello dell’incremento dei rapporti umani. Dopo cento anni molti intellettuali, anche europei, hanno imparato che la decrescita può essere cosa buona, non solo quella degli arsenali delle armi, ma anche quella della energia e della tecnologia in genere, anche nella vita sociale quotidiana.

Questi due tipi di sviluppo, tra loro alternativi, costituiscono una dicotomia. Essa è indipendente da quella tradizionale, destra-sinistra, che si basa sul tipo di istituzione politica che si preferisce: o autoritaria verticistica, o autogestionaria popolare, le quali premiano rispettivamente o la libertà personale o la giustizia collettiva.

Incrociando le due dicotomie si ottengono quattro coppie di scelte, le quali caratterizzano quattro modelli di sviluppo. Questo concetto è stato suggerito parzialmente da Capitini e da Lanza del Vasto e poi è stato chiarito da Galtung. Ognuno segue il suo modello; e la gente che complessivamente segue contemporaneamente questi quattro modelli realizza una vita politica come pluralità di direzioni politiche che si sviluppano assieme. Questa pluralità può sopravvivere solo perché i seguaci di almeno un MDS, quello verde gandhiano, non vogliono la soppressione degli altri, ma cercano di risolvere i conflitti in maniera consensuale. Quindi la pluralità nella vita politica è essenzialmente fondata sulla nonviolenza.

Nella storia della teorie politiche questi concetti costituiscono una novità assoluta, perché la cultura accademica ancora teorizza la politica come attuazione di un assoluto nella storia (lo Stato hegeliano), o come contrapposizione (o alternanza) di due ideologie contrapposte da un conflitto irriducibile.

Quindi la nonviolenza fa anche la storia della intellettualità, da quella personale a quella politica.

Questa novità storica della nonviolenza ha senso anche nella storia italiana? Certo, un esempio è dato dalla storia italiana della obiezione di coscienza e del suo progetto politico di cambiare la struttura della difesa nazionale.

Questa storia è incominciata con il singolo obiettore che per motivi di coscienza, spesso religiosa, preferì andare in galera piuttosto che imparare ad uccidere. In Italia il primo caso famoso fu quello di Piero Pinna nel 1947. Ne seguirono processi, polemiche, progetti di legge, manifestazioni, obiezioni collettive ripetute ogni anno.

Finché nel 1972 lo Stato permise un servizio civile “sostitutivo” a quello militare (non alternativo!). Ma siccome il Ministero abbandonò l’organizzazione degli obiettori, sperando che essi si auto-scompaginassero, quelli di loro che erano responsabili e impegnati nella nonviolenza hanno utilizzato la libertà realizzando autonomamente dei servizi civili da prima linea (ospedale psichiatrico di Trieste, nocività in fabbrica, energie alternative, lavoro di quartiere e tra i baraccati, rivitalizzazione del lavoro della campagna, ecc.). Finché negli anni ’80 arrivarono grandi Associazioni (in particolare la Caritas) a dare un sostegno organizzativo al loro servizio civile; con esse (pur sotto il controllo negativo del Ministero della Difesa, che inquinava le Associazioni con quelle di suo comodo) si tenne testa all’aumento impetuoso delle obiezioni.

In Italia la costruzione dal basso del Servizio civile è stata una pagina gloriosa. Anche perché l’impegno personale degli obiettori dal 1983 è continuato nella loro vita con la partecipazione alla Campagna di Obiezione alle spese militari per istituire una Difesa popolare nonviolenta. Pur subendo migliaia di pignoramenti in casa, la loro pressione sul Parlamento non si è fermata.

Così come non si è fermato il loro impegno alla base. Da quando le rivoluzioni nonviolente del 1989 hanno tolto l’incubo della invasione sulla linea di difesa nazionale Gorizia-Trieste, le motivazioni degli obiettori hanno suggerito di dedicarsi ai conflitti nel mondo e così hanno costruito una tradizione e una efficacia degli interventi disarmati di pace dal basso, di tipo o temporaneo (ad es. le famose marcia dei 500 a Sarajevo nella guerra Jugoslava), o regolari (ad es. quelli dell’Operazione Colomba nei conflitti in tutti i continenti). Per questi interventi è prevalsa la dizione Corpi civili di Pace invece di quella più significativa e caratterizzante: Interventi nonviolenti di pace.

Perciò si è arrivati ad una conquista giuridica straordinaria, senza che ci fosse un solo partito (neanche quello Verde o uno di estrema sinistra) che lo sostenesse ufficialmente: il Parlamento ha approvato (una diecina di volte, perché quando una Camera l’approvava finiva la legislatura e allora si doveva ricominciare daccapo; e poi una volta, nel 1993, il Presidente Cossiga riuscì a respingere la legge approvata da ambedue le Camere) la legge 230/1998, che istituiva per la prima volta al mondo “una difesa civile non armata e nonviolenta” (è stata la prima volta che una legge ha usato la parola nonviolenza).

Ma nel 2001, per accontentare i militari che volevano togliere gli obiettori dall’orizzonte politico, il Parlamento ha “sospeso” la leva(anche se ciò va contro la Costituzione!). Però le Associazioni si sono accorte che non potevano fare a meno del servizio degli allora 80.000 obiettori; lo Stato ha dovuto istituire il Servizio Civile Nazionale volontario (legge 64/2001).

Questo oggi ha al suo attivo una conquista giuridica che ancora una volta è la prima al mondo: la legge di stabilità 2013 ha stanziato 9 milioni di euro per inviare 500 giovani in SC in missioni di pace all’estero; nel febbraio 2015 è stato redatto il regolamento di attuazione.

Questo cammino, che dal basso di una sola persona in carcere per motivi di cosicenza interiore, è giunto fino a delle leggi e degli impegni di governo per cambiare la struttura delle Forze Armate indica che il famoso dilemma (lavorare nel movimento o nell’istituzione?) è risolubile nel migliore dei modi, lavorando in ambedue; la politica nonviolenta in Italia ha avuto la capacità di compiere dal basso delle lotte sociali su obiettivi istituzionali importanti e così ha fatto storia anche in Italia, un Paese che, attraverso la NATO, dipende militarmente dagli USA.[v] Dobbiamo anche riconoscere che questa crescita dimostra che la nostra società italiana, pur con tutti i grandi problemi politici che ha, è comunque rimasta sostanzialmente democratica: è possibile per un movimento dal basso essere rispettato democraticamente e così giungere a realizzare i suoi obiettivi mediante una lotta che rispetti, formalmente e sostanzialmente, la dialettica democratica.

E’ in questo contesto che si colloca l’attività di studio, ricerca e proposta del nonviolento Alberto L’Abate.

Facciamo ora attenzione al suo libro “L’arte della Pace”. Che è la continuazione dei suoi libri di riflessione ed approfondimento sul perché la guerra persista nella storia e nel mondo nonostante la volontà contraria dei popoli, e su come si possa prospettare “Un futuro senza guerre” (Ed. Liguori, Napoli, 2008). Questo è il titolo di un libro nel quale Alberto ha riflettuto, oltre che sulla possibilità della soluzione nonviolenta, anche sulla sua praticabilità per mantenere un mondo in pace; quindi su come saper risolvere i conflitti potenzialmente bellici – di fatto sempre possibili nella storia umana -, senza rispondere con la guerra; o addirittura su come risolvere guerre già scoppiate, senza passare all’uso delle armi.

Già ci sono state esperienze anche esaltanti: ad es. le mediazioni della Comunità S. Egidio in Mozambico, Algeria, Kosovo, ecc.; le marce dentro le guerre in Jugoslavia e in Africa; gli interventi Operazione Colomba in Palestina; la sopravvivenza di uan cinquantina di Comunità di Pace in Colombia (nonostante i soprusi e gli omicidi compiuti da due formazioni di guerriglieri, paramilitari e forze statali di repressione); il Tribunale della Verità e della riconciliazione in Sud Africa; ecc.

Ma dal punto di vista intellettuale, molti ritengono che un futuro senza guerre sia un problema insolubile, perché la tradizione accademica manca di studi su come reagire senza armi a chi si impone con la forza miltare. Invece da alcuni decenni Gene Sharp ha incominciato studi sul caso nazionale: come fare rivoluzioni nonviolente davanti alla forza militare di dittature, anche le più feroci. Il suo lavoro è stato premiato dal fatto che (anche per sua ispirazione) sono avvenute rivoluzioni nonviolente in tutto il mondo (da quella di Tien An Men a quelle che hanno ribaltato tante altre dittature; così tante che da pochi anni è la prima volta che nel mondo la maggior parte degli Stati ha un regime sostanzialmente democratico).

Ma il problema degli studi di Sharp è che egli invoca, oltre che una fortissima disciplina dei partecipanti, ancora una strategia che però non si sa bene da chi debba essere elaborata e secondo quali caratteristiche.

Allora, sin dagli anni ’90 abbiamo incominciato a frugare nei trattati di strategia militare, per vedere se non ci fosse qualcosa di buono per i nonviolenti. In fin dei conti, si pensava, se l’autore di uno di questi trattati avesse avuto la ideologia della distruzione totale (quella attualmente in uso), non avrebbe sentito il bisogno di scrivere un libro che stabilisce un legame con il pubblico, compresi i nemici. Infatti si è scoperto che essi sentivano l’esigenza di allontanarsi dal mito della violenza per avvicinarsi ad una ragionevolezza bellica che tenga conto della umanità, in modo da ridurre al minimo le perdite umane; e quindi, aggiungiamo noi, riflettendo in una direzione utile alla nonviolenza.

Negli anni passati sono stati compiuti studi sui maggiori strateghi militari: Sun Tzu, Lazare Carnot, Clausewitz; fino a ricavarne alcuni principi di strategia nonviolenta nella risoluzione dei conflitti di massa.[vi]

Ora sull’argomento Alberto ha scritto addirittura un libro, in riferimento al più antico stratega, il cinese Sun Tzu. Questi ha scritto un libretto famoso, dal titolo “L’arte della guerra”. Giustamente il nonviolento Alberto l’ha riletto come “L’arte della pace”.

Sun Tzu vede la strategia prevalentemente dal punto di vista soggettivo: trasmette insegnamenti da uomo a uomo, da capo ad aspirante capo, espressi con un insieme di massime, senza formulare un sistema teorico. Inoltre tratta la violenza e l’arte del fare la guerra facendo riferimento ad aspetti della vita personale che vengono proiettati a livello globale. La sua cultura è quella della religione, il Dao. L’aspetto strutturale c’è nella forma antica: il potere politico (di un sovrano quasi assoluto) e l’esercito, su cui il comandante ha un potere pressoché assoluto; la guerra è lo scontro di grandi gruppi armati, soggetto però ai dettami dei rispettivi poteri politici.

I suoi temi sono: le spese, la validità della strategia, la motivazione dei soldati, il coraggio, la conoscenza dei propri e altrui limiti, la tecnica del judo, la furbizia di spiazzare, il vincere combattendo con le armi dei rapporti psicologici. Alberto riconosce validi questi insegnamenti, salvo gli ultimi due, perché posti da Sun Tzu come arti di furbizia; mentre invece la nonviolenza gioca sempre allo scoperto e per influire sui rapporti personali, compie delle azioni (ad es. un digiuno) con motivazioni su cui egli spera di avere una convergenza con l’avversario.

Posta la base di un pensiero strategico nonviolento, Alberto si allarga a modernizzare la visione attraverso quella che è stata la sua esperienza di studio e sul campo. Si passa così ad una visione strutturale del problema e delle sue soluzioni.

Egli propone come fondamentale un tema molto impegnativo ma che è il più adatto alla nonviolenza perché è quello dove essa può essere più efficace: la prevenzione dei conflitti armati. Con questa si vince la guerra senza farla, così come diceva Sun Tzu, ma nel senso preciso di agire non violentemente prima che la guerra scoppi. Qui Alberto elenca tutte le modalità di intervento realizzate dalle esperienze di questi ultimi decenni nel mondo: segnalazione precoce, accertamento dei fatti, diplomazia preventiva (parallela o alternativa a quella statale), ambasciate di pace, negoziazione e mediazione dei conflitti. E, nel caso di scoppio di una guerra, l’intervento dei corpi civili di pace; e poi nella società post-bellica l’opera di riconciliazione.

Ma, riconosce Alberto, per compiere efficacemente tutto questo occorre realizzare delle novità sociali di grossa portata. La prima è una educazione alla nonviolenza che di per sé costituisce un cambiamento di paradigma nella popolazione. La seconda è una crescita del Movimento per la Pace dal volontarismo fino alla costruzione di strutture istituzionali di pace, riconosciute dallo Stato, anzi che diventano parte integrante dello Stato; così come deve essere in q    uel periodo di transizione chiamata “transarmo”, in cui le soluzioni violente e quelle nonviolente gareggeranno nel dimostrare le loro efficace, in modo che la popolazione alla fine potrà decidere tra le due soluzioni in piena coscienza ed esperienza.

Nel tentare di concludere questo discorso strutturale così ampio, Alberto riflette complessivamente su quanto propone. Certo, egli vuole una “rivoluzione totale”, il programma che in India hanno lanciato e portato avanti due discepoli di Gandhi, Jyaprakash Narayan e Jaganhattan; ai quali egli giustamente dedica il libro.

Promuovendo una democrazia partecipativa che punti nel Paese alla introduzione della nonviolenza nella difesa nazionale e nelle trasformazioni sociali, questa rivoluzione totale oggi si può fare certamente, perché ormai è nella storia e nella cultura, anche nella cultura strategica che Sun Tzu ha incominciato duemila e cinquecento anni fa.

NOTE:

[i]         Lanza del Vasto, I quattro flagelli (1957), SEI, Torino, 1996, cap. 5°, par. 56.

[ii]        Gregg, The Power of Non-violence, Lippincott, London, 1934.

[iii]        J.M. Muller, Il principio di nonviolenza. Una filosofia della Pace, PLUS, Pisa, 2005, p. 252; vedasi anche le frasi che svalutano la nonviolenza concepita da Gandhi come capacità di conversione dell’avversario (p. 256).

[iv]        Vedi il mio articolo: “Il Concilio Vaticano II e le riforme delle religiosità compiute dai maestri della nonviolenza”, Gregorianum, 95/2 (2014) 295-325.

[v] A questa progressione di crescita dal basso si potrebbe aggiungere quella della lotta e della vittoria contro le centrali nucleari, nella quale la componente nonviolenta è stata ancora una volta decisiva. Ma non c’è spazio per ricordarla.

[vi] Sono stati pubblicati negli atti dei convegni sulla difesa popolare nonviolenta. A. Drago e G. Stefani (edd.), Una strategia di pace: la difesa popolare nonviolenta, Fuorithema, Bologna, 1993, “Teoria dei giochi e DPN”, 143-152 (con G. Minervini); “Entropia e difesa”, 153- 162 (con A. Sasso); A. Drago e M. Soccio (edd.), Per un modello alternativo di difesa nonviolenta, Editoria Universitaria, Venezia, 1995: “Una difesa alternativa per l’Italia. Proposte per un modello DPN”, 133-142 (con C. Palagiano); “Il cambiamento di paradigma nella risoluzione dei conflitti”, 215-229; “Meccanica, urto e nonviolenza”, (con A. Pirolo) 199-208) e su due riviste (A. Drago e F. Pezzullo: “Logica e strategia. Analisi della teoria di K. von Clausewitz”, Teoria Politica, 16 (2000) 164-174; G. Covone e A. Dragoe: “L’Arte della guerra in Sun Tzu”, Quaderni Asiatici, n. 52, genn.-marzo 2000, 47-62.

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Antonino Drago della Comunità dell’Arca d Lanza del Vasto. Prof. Antonino Drago è membro della rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e insegna presso la TRANSCEND Peace University-TPU.

This article originally appeared on Transcend Media Service (TMS) on 16 Feb 2015.

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