(Italiano) “I ragazzi sono in pericolo”: Benvenuti nella Guantanamo dei bambini

ORIGINAL LANGUAGES, 8 Aug 2016

Noor el-Terk – Middle East Eye

«Mentre il presidente dichiara che i giovani sono la speranza e il futuro del paese, le sue azioni dicono il contrario. E sono molto più eloquenti».

Un membro delle forze di sicurezza egiziane fa la guardia di fronte alla scuola di polizia di capitale, Il Cairo, 21 Aprile 2015 (AFP).

Un membro delle forze di sicurezza egiziane fa la guardia di fronte alla scuola di polizia di capitale, Il Cairo, 21 Aprile 2015 (AFP).

“Sai che significa essere una delle ragioni per cui qualcuno sta dietro le sbarre?”

Mi accoglie con queste parole un avvocato egiziano mentre mi racconta del suo ultimo caso. Mohamed Abdelsayed, quattordicenne, è stato accusato di protesta non autorizzata e di possesso di esplosivi dopo che un tassista lo ha consegnato in una stazione di polizia sospettando che fosse un manifestante. È rimasto recluso per un mese, per poi essere rilasciato quando il caso è stato trasferito ad un tribunale. Senza aspettarsi granché dal sistema giudiziario egiziano, Mohamed avrebbe preferito non essere presente all’udienza, per paura di dover tornare immediatamente in carcere. Alla fine però si è fatto convincere dall’avvocato, e si è ritrovato in aula condannato a cinque anni.

Questa è la realtà dei giovani egiziani oggi. Mentre il presidente dichiara che i giovani sono la speranza e il futuro del paese, le sue azioni dicono il contrario. E sono molto più eloquenti. A due anni dall’inizio del suo mandato, la lista dei risultati ottenuti è piena di promesse vuote e animi affranti. Mentre i media egiziani adulavano l’autoproclamatosi feldmaresciallo durante la sua campagna elettorale, Sisi è rimasto piuttosto avaro di promesse, senza proporre nulla di tangibile su cui potesse poi essere inchiodato dai critici, al di là di vaghe risposte stranamente simili a quelle dell’americano Donald Trump, come il dire che “l’Egitto tornerà ad essere grande”.

Messo sotto pressione con domande sull’economia, ha risposto severamente chiedendo agli egiziani di essere più sobri, e di “stringere la cinghia”. Quando gli è stato chiesto conto delle detenzioni arbitrarie, ha ammesso che sì, qualcuno potrebbe essere stato recluso per errore nel fanatico giro di vite contro le opposizioni, ma ha promesso che sarebbero stati rilasciati. Dopo due anni i dati sui detenuti continuano ad aumentare a livelli impressionanti. Le stime più caute parlano di 50mila detenuti politici. “Stiamo vivendo l’impossibile, l’impensabile,” mi dice il padre di Mohamed Imad, quindici anni. Lo hanno sottoposto a elettro-shock, colpito in faccia, frustato, gli sono saltati sulla schiena: la lista degli orrori è infinita, suo padre a stento trattiene le lacrime. “Sapete, mio figlio è nato in Giappone. Ho scritto all’ambasciatore giapponese, ho chiesto se mandarlo in Giappone può servire a tenerlo al sicuro. Sarei disposto a rinunciare a mio figlio, il Giappone può prenderselo come uno dei suoi. I bambini qui sono in pericolo.”

In carcere da due anni con dieci accuse a suo carico, dalla protesta all’omicidio, Mohamed è ancora in attesa di una sentenza. “Tutto ciò che mio figlio conoscerà di questo paese è la prigionia. È molto di più di ciò che qualsiasi quindicenne dovrebbe vedere.”

Prelevati dalle loro case di primo mattino, o a scuola dopo gli esami, e poi ritrovati morti, in prigione (o in alcuni casi, non ritrovati affatto), l’inesorabile campagna del governo egiziano contro il dissenso ha raggiunto livelli senza precedenti, e prende particolarmente di mira i minori.

Quando Hisham Naser si è imbattuto per caso in tre ragazze che venivano picchiate per strada da criminali perché sospettate di aver preso parte a una manifestazione, ha tentato di fermarli. I vicini, invece di aiutarlo, hanno chiamato la polizia e lo hanno consegnato nelle loro mani. Nella stazione di polizia l’accoglienza è stata a suon di pestaggi, poi la sua detenzione è durata mesi, fino a quando è stato mandato a Kom el-Dikka, e poi al famigerato centro di detenzione di Al-Aqabiya, che i ragazzi e le loro famiglie hanno iniziato a chiamare “la Guantanamo dei bambini”.

“Ci hanno promesso che non avrebbero più mandato lì i nostri figli. Gruppi per i diritti umani e avvocati ci hanno tutti promesso che i nostri bambini non sarebbero dovuti tonare in quella Guantanamo. Ma li hanno di nuovo portati lì,” ci dice tristemente la madre di Hisham. Quando i ragazzini hanno scoperto che sarebbero stati nuovamente mandati a Al-Aqabiya, si sono rifiutati di muoversi. Buttati faccia a terra, i funzionari di polizia li hanno colpiti pesantemente alla schiena e gli hanno calpestato le teste con gli stivali. Un ufficiale è saltato sul braccio di Hisham e glielo ha lasciato rotto, incapace di muoverlo per sei mesi, e senza poter avere accesso a cure mediche. Con l’aggravarsi della situazione Hisham ha avuto alcune crisi in cella, alle quali i suoi secondini hanno risposto prontamente gettandogli acqua bollente addosso.

È stato costretto a stare steso a terra e pulire il suo sangue con il suo stesso corpo, a rimanere per ore interminabili arrampicato in punta di piedi e colpito ad ogni movimento. I carcerieri usano i criminali comuni per picchiare e torturare i prigionieri politici. “È vero,” conferma l’avvocato. “Qualsiasi cosa le famiglie ti dicano è solo una piccola parte di quello che realmente accade lì dentro.” Piena di abusi sessuali, torture, pestaggi letali, la vita non ha più senso per i bambini rinchiusi nella prigione di Al-Aqabiya, una situazione che ormai spinge tantissimi a tentare il suicidio.

Le storie di maltrattamenti non finiscono qui: sono una più orrenda dell’altra. Alle giovani ragazze gli ufficiali militari dicono che poiché proiettili, gas e arresti non hanno funzionato, l’unico modo per distruggerle è assicurarsi che lascino la prigione incinte. Nel corso degli arresti, e dopo invasivi test di gravidanza, gli ufficiali si divertono a insultare le ragazze, e a dirgli che ‘oggi passeranno la notte nelle loro mutande’, tenendole continuamente sveglie.

Dalla sparizione forzata del dodicenne Anas Badawy, che è rimasto un anno nella prigione di Alazooly senza che nessuno avesse sue notizie, a Isam Aldin, quindicenne con un problema polmonare prelevato in strada e ricoverato quattro volte dal giorno dell’arresto: sono innumerevoli le storie che emergono ogni giorno, dipingendo un futuro oscuro per l’infanzia perduta d’Egitto. Ma come ha espresso il padre di uno dei giovani prigionieri, è l’assordante silenzio del mondo che dà al regime carta bianca per continuare ad abusare e derubare questi bambini della sicurezza e della vita. “Mio figlio è uno di centinaia. Prima avevate la scusa, non sapevate. Ma ora, ora sapete.”

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Noor El-Terk è un ardente difensore della giustizia sociale, con un interesse particolare nella regione del Medio Oriente Nord Africa. Ha conseguito un Master in ingegneria chimica e tweet a @ kelo3adi.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato qui .

Traduzione a cura di  “Focus MiddleEast”.

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