(Italiano) Nella più totale impunità l’emergenza continua nelle carceri indiane

ORIGINAL LANGUAGES, 18 Jan 2021

Intervista a Virginius Xaxa di Daniela Bezzi | Centro Studi Sereno Regis - TRANSCEND Media Service

14 Gennaio 2021 – Ci è già capitato più volte di denunciare su questo sito la situazione emergenziale del sistema giudiziario indiano, che sempre più spesso negli ultimi anni, di fronte a qualsiasi forma di dissenso, ha fatto ricorso al cosiddetto UAPA, acronimo che sta per Unlawful Activities Prevention Act.

In pratica una legge che prima ancora di provare la reale colpevolezza o corresponsabilità dell’imputato, ne autorizza la detenzione a tempo indeterminato. Una detenzione che, prolungandosi nell’infinita attesa di un processo, senza alcuna possibilità di intervento da parte della famiglia o dei legali, diventa già di fatto una condanna.

Ne abbiamo parlato qualche tempo fa, per denunciare l’incarcerazione (8 ottobre 2020) di Stan Swamy, un anziano gesuita molto attivo nella difesa legale di migliaia e migliaia di adivasi [1] che languono da anni nelle carceri del Jharkhand – spesso per motivazioni pretestuose, ma difficili da smantellare. Anche lui alla fine è finito in carcere, con l’assurda accusa di ‘fiancheggiamento’ dell’insorgenza maoista, nel quadro di quelle stesse indagini che prima di lui avevano colpito altri quindici attivisti piuttosto noti sulla scena del movimenti indiani, tra essi la sindacalista Sudha Bharadway, lo scrittore poeta Varavara Rao, e poi insegnanti, professori, intellettuali di spessore, tutti in carcere da mesi.

Il caso di Padre Stan Swamy, forse perché così anziano, sofferente di Parkinson, oltre che per il fatto di essere Gesuita, ha avuto il non piccolo merito di attrarre una discreta attenzione, non solo mediatica e non solo da parte del mondo cristiano, anche fuori dall’India. Fiaccolate di protesta, a Londra, New York, Canada, un lungo articolo sul New York Times, varie petizioni di denuncia, tutto questo ha creato le condizioni per un recente appello non solo in suo favore alle Nazioni Unite, per sollecitare l’attenzione da parte delle Organizzazioni Internazionali impegnate sul fronte dei diritti umani, circa l’indegnità della situazione carceraria in tutto il subcontinente indiano.

Su questi temi abbiamo intervistato Virginius Xaxa, ritenuto uno dei massimi esperti di questioni tribali, ex professore di sociologia alla Delhi School of Economics, e promotore nel 2014 di un’importante Commissione di Inchiesta nelle carceri dell’India più interna, in particolare nelle zone tribali del Jharkhand, Chattisgarh, Orissa.

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Virginius Xaxa

Daniela Bezzi – Professor Xaxa, come mai nonostante ormai in pensione da tempo, ha sentito di nuovo l’esigenza di intervenire con un articolo per la testata Scientific American, significativamente intitolato ‘L’India sta criminalizzando come terroristi i difensori dei diritti indigeni’…

Viriginius Xaxa – Ciò che ho scritto in quell’articolo è solo una minima parte di ciò che dovrebbe essere denunciato. Le prigioni che insieme ai miei colleghi ho avuto modo di visitare nelle regioni del Telangana, Chattisgarh, Jharkhand, nord dell’Orissa, caratterizzate da una significativa popolazione tribale, funzionano come veri e propri lager. Un numero impressionante di giovani, tra essi anche molte donne, da anni continua a languire, per capi d’accusa sommari, dalla complicità con l’insurrezione naxalita ai più banali furtarelli – tra l’altro in condizioni di assembramento, per non dire anti-igieniche, incompatibili con l’emergenza Covid.

E per tutti loro non c’è alcuna speranza di processo. Non potrò mai dimenticare una certa prigione, nella zona del Bastar, in Chattisharh, affollata di donne visibilmente molto povere, detenute da non so quanto tempo – e il Chattisgarh non è un’eccezione, ovunque è la stessa galera. Il nostro rapporto voleva essere una chiara raccomandazione per processi più veloci, in modo da permettere a quanti siano riconosciuti non colpevoli il reinserimento nella vita civile, nelle comunità e villaggi di provenienza – esattamente quello che anche Padre Stan Swamy e la sindacalista/avvocatessa Shuda Bharadwaj cercavano di facilitare nelle rispettive aree di intervento, prima che entrambi venissero imprigionati.

Ma niente di tutto questo sta accadendo. Invece è successo che anche quei valorosi paladini dei più fondamentali diritti sonio finiti chiusi dentro, con la stessa accusa di essere ‘fiancheggiatori’ dei maoisti – e ai sensi di quella stessa legge draconiana, l’UAPA, che in India autorizza la detenzione a tempo indeterminato di chiunque manifesti un’opinione o comportamenti non ‘allineati’. Si tratta a tutti gli effetti di criminalizzazione del dissenso, e senza alcuna speranza di difesa, dati i lunghissimi tempi dell’iter processuale.

Per non dire delle situazioni in cui ci siamo imbattuti visitando alcuni villaggi, trasformati in campi di concentramento, con licenza di sparare a chiunque cercasse di fuggire. Per non dire degli stupri, dei casi di tortura, violenza corporale anche per gli uomini, che non vengono neppure più denunciati: quante testimonianze di questo genere abbiamo raccolto, soprattutto in Chattisgarh, in un quadro di violenza ovunque pervasiva, ad ogni livello, dalla condanna a languire in carcere, ai ripetuti stupri di gruppo, alla perdita di quei minimi titoli di proprietà… è inenarrabile il livello di miseria e intimidazione che condanna le regioni più interne dell’India.

Le famiglie non sanno nemmeno dove siano finiti i loro parenti, marito, mogli, figli, scomparsi … Alla fine presumono che se il loro corpo non è stato trovato, forse non sono morti, forse sono finiti in galera – ma dove, quale? Migliaia e migliaia di persone, magari innocenti, letteralmente scomparse per le loro famiglie, che per mesi, per anni, continueranno nella ricerca, senza sapere a chi rivolgersi, senza alcuna idea di come procedere, il più delle volte senza neppure sapere di avere dei diritti! Ed è proprio in questa direzione che si muoveva quell’istituzione, Bagaicha, fondata da Stan Swamy in Jharkhand, concepita innanzitutto come luogo di sensibilizzazione, confronto di casi ed esperienze, crescita personale e al tempo stesso di comunità…

DB – Non trova singolare che sia toccato proprio a Stan Swamy, forse per il fatto di essere così anziano e così evidentemente vulnerabile, il ‘merito’ di aver attratto un minimo di attenzione su questa situazione, da parte di una comunità internazionale da sempre non molto attenta e ancor più distratta, negli ultimi tempi, per l’emergenza Covid?

VX – Beh sì. Ma senz’altro andrebbe ricordato che prima di lui, e per lo stesso quadro accusatorio sono finiti in galera altri 15: attivisti, sindacalisti, intellettuali, un rispettato (e molto anziano) poeta-scrittore come Varavaro Rao (tra i primi a finire in prigione nell’estate del 2018), tutti mirabilmente impegnati sul fronte dei più fondamentali diritti, in favore delle minoranze più svantaggiate dell’India, ovvero i dalits e gli adivasi. Per Stan Swamy ci sono state finalmente delle mobilitazioni, delle fiaccolate, degli appelli in varie sedi anche fuori dall’India, negli Stati Uniti, Canada, e ovunque è stato molto emozionante, senz’altro incoraggiante anche per noi in India vedere crescere questa solidarietà.

Ma a patto di non dimenticare tutti gli altri, e quando dico tutti gli altri non intendo solo i 15 attivisti implicati nello stesso assurdo caso che ha portato in galera Stan Swamy, ma anche le decine di studenti che l’anno scorso hanno guidato le proteste contro l’iniquità della legge per la cittadinanza – finiti pure loro in galera. E il numero letteralmente non quantificabile di prigionieri ‘comuni’, gli uomini e donne adivasi e dalits, che sono stati oggetto della mia indagine nel 2014 e che molto probabilmente sono tuttora là dove li ho lasciati, a languire nelle stesse celle. E’ senz’altro molto significativo il fatto che, in risposta all’insostenibile teorema che vede in carcere persino un anziano padre gesuita, la comunità cristiana abbia deciso di aprirsi, mettersi in ascolto, mobilitarsi, perché sebbene si tratti di una comunità numericamente piccola in India, è ben nota la sua capillare capacità di influenza e persuasione – per vie magari non tanto visibili, e però efficaci.

Per cui speriamo! Speriamo che queste ansietà che la detenzione di Stan Swamy ha avuto l’effetto di suscitare all’interno delle comunità cristiane, sia in India che fuori dall’India, possa contribuire a una maggiore convergenza di intenti e unità, tra le tante istanze delle minoranze oppresse dell’India. Che senz’altro chiedono e meritano giustizia: la violenza dev’essere denunciata come tale, la discriminazione non può essere considerata compatibile con una moderna democrazia, l’universalità del Diritto deve ritrovare piena affermazione in India – e tornare a essere l’unica salvaguardia possibile contro uno sviluppo predatorio per l’ambiente, devastante per i territori e punitivo per coloro che ci abitano. In effetti a garanzia di queste fondamentali tutele ci sarebbe la nostra bella Costituzione dell’India – ma così non è!

DB – A questo proposito può dirci qualcosa circa lo stato di salute delle tutele legislative che nel corso del tempo si erano consolidate, particolarmente nelle zone tribali, e sono state oggetto negli ultimi tempi di significative deroghe e revisioni?

VX – Beh, come ben sappiamo il sistematico saccheggio dell’India (e le vere e proprie fortune maturate durante il periodo coloniale) ha inizio precisamente in quello che oggi chiamiamo Jharkhand. Ahimè, non sono l’unico a sostenere che ciò che è accaduto in quel lontano periodo è continuato in modi persino più sistematici e aggressivi nell’India post-coloniale: perché se l’infinita serie di ribellioni e rivolte verificatesi durante il periodo coloniale era riuscita almeno a sollecitare una qualche forma di considerazione da parte dei sahibs bianchi, e persino qualche significativa misura di tutela (pensiamo al fondamentale Chota Nagpur Tenancy Act nella aree Munda e Santhal, che tuttora sancisce il diritto adivasi alla terra, in termini di sussistenza), nell’India post coloniale tutte le promesse che erano state sancite dalla Costituzione non sono state rispettate.

E ogni volta che si cerca di richiamare a quell’Ordine Costituzionale l’urgenza di questo o quel progetto di sviluppo (con l’inevitabile land grabbing – furto della terra) ecco che si mobilita la possente macchina dello Stato, in esclusivo favore degli investitori, delle corporations, del profitto, e spogliando di ogni diritto gli adivasi, la cui fondamentale sfortuna è vivere in territori che come sappiamo sono eccezionalmente ricchi di risorse, soprattutto minerarie. E questa consapevolezza provoca a me, personalmente, come adivasi e come studioso, una sofferenza enorme – immaginiamo la sofferenza che una simile situazione può provocare a milioni di adivasi non altrettanto privilegiati, condannati a vivere in prima persona il prezzo delle ricchezze che giacciono nel sottosuolo di quelle terre o foreste che sarebbero la loro legittima casa, per diritto costituzionale! Ed ecco spiegato questo accanimento repressivo, questa macchina di criminalizzazione, le carceri che straboccano di poveri corpi emaciati come neanche all’epoca delle colonie – intollerabile!

È evidente che il land grabbing su così vasta scala, ha già impoverito moltitudini di disgraziati, che non hanno altra prospettiva che andare ad ingrossare l’esercito del lavoro informale nelle grandi città: una migrazione senza ritorno che impatta pesantemente a livello socio-economico e in termini di coesione, in tutta l’India peninsulare. Per fortuna gli adivasi non si arrendono, molti di loro hanno avuto (come me) l’opportunità di uscire dalla miseria, hanno studiato, hanno coltivato delle aspirazioni, si sono in qualche modo emancipati. Ma la loro fondamentale aspirazione, man mano che cresce in loro la consapevolezza della loro indigeneità, del fatto di chiamarsi adivasi, resta quella di sempre: Jan, Jangal, Zamin – Acqua, Foreste, Terra. E insomma Ambiente, gli adivasi non smetterano mai di lottare per la Salvaguardia del loro Ambiente, anche se il tentativo di derubarli del loro Ambiente non smetterà mai, e questo è molto doloroso.

Ma non ci sarà spazio per il vittimismo in questo dolore, come la storia di tante rivolte e ribellioni ha dimostrato: gli adivasi non si arrenderanno, continueranno a combattere, la stessa lotta che hanno combattuto durante il periodo coloniale continuerà in forme diverse, non si è mai in effetti fermata, indipendentemente dall’esito di vittoria oppure di sconfitta – e questo è straordinario. Questo coraggio, determinazione, resilienza dell’India tribale, non potrà mai venir soppresso da alcuna più o meno legittima detenzione, continuerà a trasmettersi da una generazione all’altra, da una marcia alla successiva – la Lunga Marcia dell’India. E però queste carceri stracolme di prigionieri, colpevoli solo di reclamare diritti che sarebbero già chiari, definiti, riconosciuti da tempo, restano una clamorosa vergogna. E come tale dovrebbe essere considerata non solo da noi, intellettuali impegnati, attivisti, sindacalisti dell’India post-coloniale – ma dal mondo intero.

NOTE:

[1] “Adivasi è il termine sanscrito ormai comunemente usato (sebbene problematico anche per gli stessi adivasi) per definire le popolazioni originarie dell’India, oltre 600 diverse etnie localizzati nelle zone più interne, generalmente collinari e ammantate di foreste, che l’ultimo censimento del 2011 quantificava nell’ordine dell’8% della popolazione, ovvero oltre 100 milioni. Poiché il censimento viene effettuato in India ogni dieci anni, quello attualmente in corso dovrebbe in teoria registrarne molti di più (su una popolazione che ormai sfiora il miliardo e 400 milioni di abitanti) ma la difficoltà ben maggiore sarà verificare la magnitudine della migranza forzata dai territori originari, a causa dei più diversi progetti industriali imposti nei loro territori.”

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