(Italian) Chiudere I Cie Subito 10 Luglio Antirazzista a Torino (Parte II)

ORIGINAL LANGUAGES, 26 Jul 2010

Silvia Berruto – TRANSCEND Media Service

Il corteo avanza…

… ma mentre stavo scrivendo la prima parte di questo testo ho appreso di una rivolta in corso al CIE di corso Brunelleschi.
non conosco gli sviluppi.

Report. Parte II. Manif. del 10 luglio antirazzista.

Il corteo avanza, sotto un sole giaguaro.
Effettua alcune brevi tappe davanti al mercato e agli incroci affollati delle strade che si trovano lungo il percorso della marcia: per informare il quartiere, per spiegare ai cittadini le ragioni della manif, per raccontare le storie di chi è dentro a(i)l CIE.
Il corteo si conclude davanti al viale alberato, antistante al CIE, dove la gente si assiepa e continua la manifestazione.

La voce di una giovane donna rivolge, dal microfono aperto e libero, “un saluto a tutti i richiusi dentro al CIE. CIAOOOO!”
Un CIAO-ovation con applausi, collettivi e dal basso, si leva.
Per chi è dentro!

Il primo intervento è la testimonianza di un attivista ed è relativa al CIE di Gradisca d’Isonzo (TS).
Dopo aver rivolto “un saluto a tutti e a tutte, soprattutto a quelli e a quelle che sono dentro a questi centri di internamento, a questi centri assurdi che noi vogliamo chiudere” l’attivista inizia il suo racconto.
“Gradisca è stato il primo CIE pensato, costruito e realizzato proprio per essere un CIE.”
Il primo ad essere stato concepito per essere un CIE.
“Per impedire le rivolte e le fughe di chi ci sta dentro.
Noi lo definiamo un NON LUOGO. Perché è un posto in cui tutti i letti sono incassati a terra, le sedie sono incassate a terra. Tutto è di cemento.”
Il muro, racconta il testimone, è ancora più impressionante di quello perimetrale del CIE di corso Brunelleschi. Sulla statale. Il CIE di Gradisca è fuori dal centro abitato. E’ di cemento armato.
L’attivista racconta di due anni di lotta condotti attraverso manifestazioni, presidi, azioni dirette, azioni legali, “per impedire l’apertura di questo CIE”. Per un anno e mezzo il movimento è riuscito a non far aprire il centro. “Un risultato sicuramente piccolo ma comunque significativo perché per un anno e mezzo nessuno è stato rinchiuso. Quando l’hanno aperto ci siamo opposti fisicamente facendoci caricare dalla polizia comandata direttamente dal ministero degli interni.”
Vi sono stati tentativi di fuga e fughe riuscite. Ricorrenti sono (state) anche le rivolte, i fenomeni di autolesionismo e gli atti di distruzione degli “arredi” interni di entità tale da dover denunciare la mancanza di fondi per una ristrutturazione del CIE.
“La situazione è difficile. E’ impossibile comunicare con chi è dentro. In tutta la regione, per i comitati antirazzisti di Trieste, Udine, Pordenone e Monfalcone il CIE di Gradisca è sempre al centro dell’attenzione che è tenuta, sempre, molto alta, e che come tutti i CIE deve essere chiusa prima e subito!”

Antonio, attivista milanese del comitato antirazzista, riflette e testimonia sul CIE di Milano.
“Chiudere prima e subito queste strutture criminali che solo una mente perversa poteva concepire …” Dopo un excursus cronologico sull’idea e sull’attuazione dei centri, CPT e CIE, l’attivista segnala che, quest’anno, al Cie di Via Corelli, c’è stato il più lungo sciopero della fame della storia dei CIE italiani. Racconta di uomini e donne che per mesi hanno fatto lo sciopero della fame e il comitato antirazzista ha portato da mangiare e da bere a chi faceva lo sciopero a staffetta: “Sì perché, oltre a tutto, all’interno di questi centri di detenzione il cibo sembra che sia letteralmente schifoso.
Le cooperative. Le cooperative si prestano, e magari anche cooperative rosse, a dar da mangiare, mettendoci dentro il bromuro, mettendoci dentro delle robe schifose per farli dormire. Questo succede continuamente nei CIE. Le rivolte che ci sono state e che ci saranno avranno sempre nei comitati antirazzisti e nelle persone decenti in questo paese un mettersi di fronte, un mettersi contro.
Perché oggi l’unica soluzione contro questa barbarie è mettersi contro!

Un’attivista segnala il prossimo campeggio NO BORDER CAMP IN BRUSSELS, dal 25.09 al 3.10 a Bruxelles, organizzato dalla rete europea di attivisti contro la politica migratoria europea e i CIE (www.noborderbxl.eu.org).

Nel frattempo una pallina da tennis, lanciata “da dentro” reca la richiesta di fare gruppo di pressione sul consolato del Marocco. Dalla rete dei CIE è arrivata la richiesta di una più ampia mobilitazione e pressione su tutti i consolati.

Karim Metref prende la parola e parla a nome del gruppo degli immigrati autoorganizzati che ha partecipato e organizzato il corteo e la manif.
Karim, dopo aver sollecitato a preparare meglio in futuro le manif., segnala che nella campagna di promozione dell’ultima settimana, effettuata a cura del gruppo e realizzata attraverso volantinaggio a Porta Palazzo e nei luoghi frequentati dagli immigrati, “abbiamo passato più tempo a spiegare che cosa è il CIE che a dire di partecipare.
La gente non sa che cosa è il CIE. Perché c’è molta disinformazione.”
E’ idea diffusa che chi si trova nel CIE abbia commesso qualcosa, che si tratti di spacciatori o di ladri mentre chi se ne sta tranquillo non viene messo in carcere.
Penso che Karim sia molto duro e molto critico nel suo discorso che è intellettualmente onesto come i contributi che ho potuto ascoltare questa sera.
“C’è un grande lavoro da fare per non essere – un pugno di persone – come siamo oggi e per togliere le persone da chi disinforma. Dalle associazioni dell’intercultura, del cous cous, delle feste e delle cene multietniche: perché sono coloro che si danno certificati da antirazzisti e da interculturali che hanno creato i CIE. Sono loro che oggi vanno in giro e parlano A NOME DELL’ANTIRAZZISMO.

Ebbene bisogna dire oggi che NON E’ ANTIRAZZISTA CHI HA COSTRUITO I CIE.
NON E’ ANTIRAZZISTA CHI LI HA PROGETTATI – anzi E’ RAZZISTA CHI LI HA COSTRUITI.
E’ RAZZISTA CHI LI HA PROGETTATI.
E’ RAZZISTA CHI LI STA GESTENDO. E CHE NE VIVE.
Non possiamo disturbare (i razzisti,nda) nei salotti televisivi ma almeno nelle conferenze, nei convegni e negli incontri in città non dobbiamo più lasciargli lo spazio per presentarsi e per PARLARE A NOME DEGLI IMMIGRATI o A NOME DELL’ANTIRAZZISMO.
E’ la legge Turco-Napolitano che fa sì che in queste e nelle prossime settimane migliaia di persone ricadranno di nuovo nella clandestinità e rischieranno di trovarsi in carcere.
Perché non CE L’HANNO MAI FATTA A FARE LA famosa CARTA DI SOGGIORNO.
Perché NON HANNO MAI AVUTO UN LAVORO a LUNGA DURATA.
NON HANNO MAI AVUTO UN CONTRATTO DECENTE così come non ce l’hanno migliaia e migliaia di giovani italiani.”
Queste persone, in Italia magari anche da quindici anni e che hanno sempre pagato le tasse, rischiano di RICADERE nella clandestinità.
Rischiano di ritrovarsi in un CIE e “NON LO SANNO NEMMENO. Perché stanno ad ascoltare in TV la Livia Turco che viene a dire che il razzismo è una brutta cosa, ma senza mai dire QUALCOSA DI CONCRETO.
Senza MAI DIRE COSA E’ L’ANTIRAZZISMO.
L’ANTIRAZZISMO è innanzitutto. NON DEVE ESISTERE IL REATO DI POVERTA’.
L’antirazzismo è. Se gli occidentali e quelli dei paesi ricchi possono andare a fare turismo in Senegal o in un altro posto, anche turismo sessuale a danno dei bambini, perché un Senegalese non può venire in Italia?
Perché I POVERI NON SI POSSONO SPOSTARE?
Se bisogna parlare dei FLUSSI MIGRATORI, parliamone. Ma a partire dalle cause.
Dal PERCHE’ una ragazza nigeriana viene in Italia. Da zone che potrebbero essere le più ricche del mondo ma che oggi sono completamente morte. Dei popoli che vivevano intorno al delta del Niger e che oggi si ritrovano a Benin City: nelle baraccopoli. Sono quelle le ragazze che cercano di entrare o entrano in Italia per svendersi sulle strade d’Italia.
Si fanno i CIE perché sono una macchina per raccogliere i voti.
Si fa la REPRESSIONE DEI POVERI per raccogliere i voti.
Ma si cerca anche IL CERTIFICATO DI ANTIRAZZISMO!
Noi, come collettivo di immigrati autoorganizzati a Torino siamo pochi. Però tra di noi CI SIAMO MESSI D’ACCORDO: non li lasceremo mai più parlare in pubblico di antirazzismo senza andare a disturbarli e senza andare a buttare le loro verità in faccia!”

Poi è la volta del contributo di Marco Rovelli al cui libro già citato, “Lager Italiani” rimando.
“Siamo qui davanti a queste mura, per manifestare, ancora una volta, la nostra opposizione radicale a questi luoghi di esclusione e di reclusione che sono i centri.
Fare questo significa manifestare un’ opposizione radicale a tutto un sistema di politica che lega l’immigrazione ad un fatto di inferiorizzazione, di minorizzazione, di clandestinizzazione e di servilizzazione.
E’ evidente un CPT è un luogo inumano.”
L’inumanità dei CIE non sta solo nelle violenze fisiche, giuridiche, e nella negazione dei più elementari diritti umani che quotidianamente sono violati in questo luogo, sostiene Rovelli, ma sta nella sua natura: nella sua natura di campo. Prima CPT ora CIE.
E’ un campo.
Per dire campo in tedesco c’è una parola che è “Lager”.
Il concetto e la pratica dei CIE sono le stesse dei Lager del Novecento dice Rovelli. “Un luogo di sospensione del diritto, un luogo dove il diritto si autosospende nella sua universalità.”
Già questo è uno dei passaggi agghiacciante. E non solo dal punto di vista speculativo.
“Il diritto universale, il diritto ordinario non vale più. In questi luoghi che sono fuori dalla legge, che sono fuorilegge, il diritto si sospende. Vige uno stato di eccezione ricorda Marco, e lo fa in modo più esteso anche nel suo libro, rifacendosi ad Agamben e alla Arendt. E si potrebbe risalire fino ad Aristotele in merito alla condizione di schiavo non molto distante concettualmente da quella “in potenza” e per molti internati dei CIE anche “in atto.”
“Siamo in presenza di una situazione di eccezione della normalità. Del diritto che vale per tutti.
Questa è la violenza fondamentale.
Stabilire che ci sono persone che non sono più persone perché non possono esercitare i proprio diritti umani. Legati ad una condizione di cittadinanza. Ed essendo questi non cittadini, nuovi APOLIDI, determinati tali dalla legge. Ad essi vengono negati tutti i diritti a partire dal quel diritto fondamentale: il diritto alla LIBERTA’.”

Rovelli invita tutti ad andare oltre al concetto della struttura del CIE per comprendere che esso non serve solo ad identificare e/o ad espellere ma è il terminale di una politica sulla migrazione finalizzata alla servilizzazione.
Alla CREAZIONE di SERVI.
E questo in Italia e in Europa sostiene Rovelli. Ma a me pare che si potrebbe parlare, purtroppo, di una situazione diffusa e planetaria come proverò a dimostrare più sotto.

Perché il CLANDESTINO SERVE”, incalza Marco.
“La parola, ricorda, viene dal latino e significa etimologicamente “COLUI CHE STA NASCOSTO ALLA LUCE DEL GIORNO. Colui che sta nell’ombra, che non emerge mai alla luce.
Nell’ombra, ricorda Marco, ci sono figure confuse, non ci sono identità.
Non ci sono volti.
Non ci sono nomi.
Non ci sono persone.
C’è solo un grande fantasma.
Un grande uomo nero.
Che serve per fare PAURA.

Citazioni agghiaccianti e convergenti, nella sostanza, fra il discorso di Manlio Milani sulla strage di Piazza Loggia che trovate qui, in liberostile (http://liberostile.blogspot.com/2010/07/21-giugno-strage-di-piazza-loggia.html) e in quello di Marco Rovelli che sto provando a restituire.
Ed ecco il passaggio nodale del discorso di Rovelli.

“La grande macchina mediatico-politica del nostro tempo, continua Marco, usa il clandestino come uomo nero. Perché la PAURA è FONDAMENTALE per la costruzione del CONSENSO POLITICO.
TANTA PIU’ PAURA C’E’ IN UNA SOCIETA’ tanta meno LIBERTA’ C’E’.
TANTO PIU’ LE PERSONE SONO DISPOSTE a rinunciare volontariamente Ai PROPRI DIRITTI IN NOME DELLA SICUREZZA.
E poi IL SERVO SERVE ALLA MACCHINA ECONOMICA.
Infatti non avendo diritti un clandestino non può rivendicare alcunché ed è costretto ad accettare qualsiasi ricatto.
Rovelli fa l’appropriato richiamo e distinguo a proposito dell’uso del termine clandestino.
Clandestino non solo rivolto a chi è irregolare privo di permesso di soggiorno.
“I MIGRANTI IN GENERALE SONO CLANDESTINI” afferma Rovelli perché LA SPIRALE, PERVERSA, si ripete sempre uguale a se stessa.
Clandestino dunque è la condizione riferibile potenzialmente anche a chi, pur regolare, può venir ricacciato nella clandestinità. Per la sequenza: lavoro/permesso di soggiorno/ Condizione di regolarità.
Che è perdibile. Per la possibile sequenza successiva di: perdita del lavoro/perdita del permesso di soggiorno/clandestinità.
RICATTO DEL LAVORO.
IL CLANDESTINO E’ SOGGETTO ad una serie RICATTI.
” E allora lo slogan SIAMO TUTTI CLANDESTINI, conclude Rovelli, sottolineando l’immagine speculare di “NESSUNO E’ CLANDESTINO”  trova la sua verità nel campo del lavoro. Per quella condizione che ci accomuna tutti.
“Siamo tutti CLANDESTINI perché siamo tutti parte di un grande processo di erosione dei diritti del lavoro, dei diritti dei lavoratori, dei diritti del mondo del lavoro. Che è un processo di precarizzazione globale e di servilizzazione totale di cui il clandestino è il punto finale. Il clandestino è un PRECARIO ASSOLUTO.”
E all’OPERAIO CHE VOTA LEGA, e che si fa prendere da quest’odio sociale, bisognerebbe FAR CAPIRE che sta andando contro i suoi stessi interessi perché IL MODO PER DIFENDERE I PROPRI DIRITTI STA NEL DIFENDERE I DIRITTI DI TUTTI.

Termino qui il report sul contributo significativo di Marco Rovelli che ha continuato la sua riflessione sul tema del lavoro.

Nel gioco delle parti c’è chi discrimina e chi è discriminato, uno sfruttato e uno sfruttatore.
POVERTA’, MANCANZA DI LAVORO, DIRITTI VIOLATI sono alcuni gli elementi su cui si basa la storia.
Anche la storia delle discriminazioni.
Ma se la parte è una sola?
Mi viene in mente “L’ECCEZIONE E LA REGOLA”  di Bertolt Brecht e la chiusa del testo.
“Così termina la storia di un viaggio.
Avete ascoltato e avete veduto ciò che è abituale, ciò che succede ogni giorno.
Ma noi vi preghiamo: se pur sia consueto, trovatelo strano”!
Inspiegabile, pur se normale!
Quello che è usuale, vi possa sorprendere!
Nella regola riconoscete l’abuso e dove l’avete riconosciuto procurate rimedio!
Questo monito accompagna la mia vita di tutti i giorni e anche il tentativo di essere intellettualmente, e non solo, onesti.
Più che di servi forse è più corretto parlare di SCHIAVI.
Fra le notizie censurate del 2009 una riguarda proprio il dato sulla SCHIAVITU’MONDIALE.

CENSURA 2009, notizia 15.
Titolo:  “SCHIAVITU MONDIALE”.
“Attualmente nel mondo esistono 27 MILIONI DI SCHIAVI, più che in ogni epoca storica. La globalizzazione, la povertà, la violenza e l’avidità favoriscono l’aumento della schiavitù, non solo nel Terzo mondo, ma anche nei paesi più sviluppati… (continua)

La forma più diffusa di schiavitù sarebbe la schiavitù sessuale (79%) seguita dallo sfruttamento lavorativo (18%), secondo i dati del Rapporto ONU sul traffico di esseri umani a livello globale, febbraio 2009.
L’ILO (International Labour Organization) stima in 2 MILIONI la crescita netta su base annua del numero complessivo di schiavi in tutto il mondo.
“LIBERARE E RIABILITARE UNO SCHIAVO IN UN PAESE POVERO COSTA CIRCA 400-600 dollari. Moltiplicando questa cifra per il numero complessivo stimato di schiavi, il totale necessario a livello mondiale non supererebbe i 10,5 miliardi di dollari.”
(Fonte: Mirela Xanthaki, “Human Slavery Thriving in the Shadows”, Inter Press Service, 14 febbraio 2009.)

Voglio, con un certo senso di disperazione ma anche con la coscienza di dover continuare a lottare, chiudere con le parole di Herta Müller.
Dedicate a tutti.
HERTA MULLER, da Parole d’Autore. I lemmi del Vocabolario Europeo, edizione 2009,

Per il vocabolario europeo Herta Müller ha scelto il vocabolo

Lager s.n. campo

[…] Im Deutschen höre ich aus diesen unschuldigen Verwendungen des Wortes Lager immer den Schrecken, eine Verstörung. Die mit dem Wort lager bezeichneten Dinge haben ein Versteck.

[…] Nelle accezioni innocenti della parola Lager in tedesco sento sempre il terrore, il turbamento psichico. Le cose designate con la parola Lager hanno una specie di nascondiglio.”

Silvia Berruto, GCR, Aosta

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