(Italiano) ‘India invisibile’: un mondo da conoscere!

ORIGINAL LANGUAGES, 20 May 2019

Elena Camino – Centro Studi Sereno Regis

Le più grandi elezioni del mondo

14 Maggio 2019 – Dell’India non si parla molto. Pochi sono al corrente del fatto che in questo periodo sono in corso le elezioni: si stanno esprimendo 900 milioni di elettori, che si stanno recando alle urne a scaglioni,  in sei date,  dall’11 aprile al 19 maggio. Lo spoglio avverrà il 23 maggio.

I potenziali elettori in India rappresentano più del 10% della popolazione mondiale: essi prenderanno parte al più  grande esercizio di democrazia della storia.  Le prime elezioni si erano svolte nel 1951-2, dopo l’indipendenza conseguita nel 1947. Nelle elezioni del 2014, gli aventi diritto al voto erano 830 milioni, e i votanti furono 550 milioni. Chiunque vinca, si troverà a governare un paese la cui popolazione – attualmente  circa un miliardo e 340  milioni di persone – supererà presto quella della Cina

Un boom economico pieno di falle

Nonostante il boom economico degli ultimi decenni, l’India ha visto moltiplicarsi i conflitti sociali, causati dalla crescente disparità nella distribuzione della ricchezza

Il primo ministro uscente, Narendra Modi, a capo del Bharatiya Janata Party, il partito nazionalista indù, in questi anni ha sostenuto e incoraggiato scelte politiche neoliberiste in cui l’alleanza del governo con grandi imprese multinazionali ha favorito l’espansione dell’economia estrattiva. Inoltre  ha esasperato i conflitti latenti tra i membri delle due principali religioni, e ha favorito l’esclusione delle minoranze etniche o religiose, sempre più spesso trattate come una popolazione di seconda classe.  Ciononostante, le previsioni e i sondaggi  lo danno ancora vittorioso, grazie al sostegno della fascia benestante (numerosa quanto l’intero elettorato USA…) e dei grandi detentori di ricchezza, ormai strettamente in affari con l’élite finanziaria mondiale che detiene il potere nel mondo globalizzato. .

Inquietudini

Chi vive in India o la visita di frequente percepisce la crescente inquietudine che investe il Paese, e osserva con apprensione la scomparsa di quell’India rurale – 800.000 villaggi – che secondo Gandhi avrebbe potuto soddisfare i bisogni primari di tutti, in una prospettiva di giustizia sociale e sostenibilità ambientale. Di fianco al rapido processo di inurbamento, che ha visto milioni di indiani assumere stili di vita all’occidentale (gli ‘onnivori’, come li definiscono Gadgil e Guha[1]) si assiste alla distruzione della natura: campagne, foreste, fiumi, montagne, che offrivano alle comunità rurali e indigene ambienti di vita essenziali e dignitosi, sono ‘consumate’ dallo sviluppo. La rapida industrializzazione del Paese occupa, cementifica e inquina i luoghi di vita del ‘popolo dell’ecosistema’, e in molte circostanze obbliga addirittura all’allontanamento forzato centinaia di migliaia di persone, che vengono costrette ad abbandonare le loro case, le terre, gli animali,  i templi… Sono i ‘rifugiati ecologici’ – la terza categoria in cui i due studiosi Indiani classificano la popolazione indiana oggi.

E il cambiamento climatico?

In vista delle elezioni i media – in India e a livello internazionale – sono focalizzati  sulle questioni politiche ed economiche, e trascurano un altro aspetto preoccupante: il  governo di Narendra Modi in questi anni ha messo in atto un sistematico indebolimento delle leggi a difesa dell’ambiente , e una riduzione dell’indipendenza degli organi deputati alla protezione dell’ambiente e delle comunità che dipendono dai sistemi naturali.  Ciò ha favorito l’espandersi di attività industriali devastanti, dallo scavo di nuove miniere all’abbattimento di vaste aree forestali;  la cementificazione di preziosi terreni agricoli, la ripresa di lavori sulle grandi dighe. Queste scelte di scarsa sensibilità e attenzione verso l’ambiente non solo hanno  contribuito a peggiorare le condizioni delle classi sociali più deboli ed emarginate, ma sono un segnale inquietante per la comunità internazionale.  Per essere efficaci, gli sforzi per ridurre l’impatto delle attività umane sul pianeta e contrastare il cambiamento climatico dovrebbero includere l’impegno concreto dell’India e della  sua numerosissima popolazione.

Avvicinarsi all’’India invisibile’

Da alcuni mesi è stata offerta  a Torino la possibilità di entrare in contatto – attraverso fotografie, film e incontri – con un mondo assai poco conosciuto: l’India delle periferie rurali e indigene, dove il boom economico non solo non è arrivato ma – al contrario – ha causato una crescente instabilità, sommando degrado ambientale e disparità sociale.

A woman bathes and prays next to the half submerged temple at Khoteswar,a village on the banks of the Narmada River. The temple was in use until last year but has since been submerged due to a rise in the water level, a direct result of the building of and raising the height of the Sardar Sarovar Dam, India.
August 1999. ©Karen Robinson

Behind the indian boom – Disuguaglianza e povertà nell’India del boom economico – è un viaggio nelle più remote regioni dell’India, per fotografare le condizioni delle sue comunità più svantaggiate – quelle dei dalit e degli adivasi – storicamente stigmatizzate come “intoccabili” e “selvagge”: per documentare il ruolo che esse svolgono all’interno dell’economia indiana e più in generale a livello globale. Nonostante il boom economico dell’India, queste comunità tribali o appartenenti alle minoranze adivasi e dalit hanno tratto vantaggi minimi dalla crescita in India:  anzi,  per milioni di loro la crescita economica è stata causa di enormi perdite – come emerge dal progetto di ricerca sviluppato nell’arco del triennio 2014/2017 dai Dipartimenti di Antropologia all’interno della London School of Economics and Political Sciences (LSE) e della School of Oriental and Asian Studies ( SOAS) di Londra, rispettivamente guidati dai Prof. Alpa Shah e Jens Lerche.

L’edizione italiana è stata realizzata a cura dell’Università di Torino e della giornalista Daniela Bezzi, che ha coordinato i lavori con Londra e la riedizione italiana della mostra fotografica.  Hanno offerto la loro collaborazione anche il Centro Studi Sereno Regis, Cittadinanze, l’ITCILO e l’associazione onlus Jarom.

Un sito (http://www.indiainvisibile.it/) è stato appositamente creato per presentare al pubblico torinese  le molteplici proposte culturali associate a questo progetto. Le parole che introducono a questo sito sono ‘vedere, ascoltare, capire’. E proprio grazie alle diverse modalità comunicative – le fotografie, i documenti, i filmati – il pubblico finisce per imbattersi in  alcuni dei nodi più drammatici del nostro vivere attuale, a intuire le connessioni che ci legano a quel mondo apparentemente lontano, e con esse le responsabilità, le connivenze, ma anche le possibili azioni da compiere per combattere l’ingiustizia e per contribuire a ridurre (almeno) le violenze contro gli ambienti naturali che ci hanno portato a modificare, in modo significativo e con esiti ignoti,  la complessa rete di relazioni che per tanto tempo ha assicurato a tutti i viventi  una condizione di stabilità  sul nostro pianeta.

Un caso studio – la diga di Polavaram

Una delle fotografie presenti nella mostra illustra  uno dei tanti conflitti presenti in India intorno alla costruzione di grandi dighe: in questo caso si tratta del Progetto di Polavaram, un insieme di sbarramenti in costruzione sul fiume Godavari, in Andhra Pradesh.

Sul caso della diga di Polavaram una regista indiana, Saraswati Kavula, ha realizzato alcuni anni fa  un film –  Dam’ned – che fa parte della cinerassegna associata alla mostra.

Il film documenta la condizione delle popolazioni sfollate per il progetto della diga di Polavaram, uno dei progetti idrici più controversi dell’India ma che, a differenza di altri analoghi progetti, ha avuto poco rilievo nei media sia indiani sia internazionali.

La diga, situata al confine fra Andhra Pradesh, Chhattisgarh e Odisha, dovrebbe fornire acqua potabile e per irrigazione in quattro distretti dell’Andhra Pradesh. Il costo di tutto ciò ricade prevalentemente su popolazioni adivasi Koya e Konda Reddy, oltre a molti gruppi dalit e appartenenti a caste svantaggiate, prevedendo lo sfollamento di circa 200.000 persone e situazioni di crescente povertà ad almeno altrettante.

Il film si snoda attraverso interviste mettendo in luce il legame fra la popolazione, il suolo, la foresta, la biodiversità e il fiume che il progetto della diga prevede di spezzare, mettendo a repentaglio le condizioni economiche, le relazioni sociali e la sopravvivenza culturale di queste popolazioni.

Dal 2013, anno di produzione del film, fino ad oggi si sono susseguite iniziative sempre più distruttive, ed è ormai quasi completata la costruzione dello sbarramento principale: iniziative realizzate senza autorizzazioni del governo centrale e degli Enti proposti a fornire le valutazioni di impatto sociale e ambientale. Restano questioni irrisolte di distribuzione dei costi e dell’uso dell’acqua da parte dei tre  Stati coinvolti; inoltre, in conseguenza dell’enorme aumento delle spese (il 500% in più rispetto alle previsioni) non ci sono più soldi per provvedere a compensazioni – almeno monetarie – alle popolazioni dislocate.

La più recente colata di cemento – dei primi mesi del 2019 – ha vinto un Guinness per la quantità e velocità con cui è stata portata a termine, e sui siti web sono presenti numerosi brevi video che documentano (in toni trionfalistici) la devastazione compiuta su territori e paesaggi che ospitavano fino a qualche anno fa  centinaia di villaggi, terreni coltivati, foreste.

La diga di Polavaram fa parte di un sistema complesso di gestione delle acque: un canale dovrebbe ‘spostare’ parte delle abbondanti acque del  fiume Godaviri verso il fiume Krishna, più a sud,  che ha spesso  una portata scarsa.

   

La diga è dotata di 48 chiuse, ed è lunga 1,2 km. I lavori di costruzione degli sbarramenti e dei canali sul fiume Godaviri  hanno già prodotto sbancamenti e distruzione di vaste aree agricole e forestate.

La costruzione di grandi dighe in India ha dato luogo a un dramma che – nonostante la sempre più vasta e dettagliata documentazione degli effetti perversi di queste ‘grandi opere’ sulle popolazioni e sull’ambiente[2] – ha ormai coinvolto più di 50 milioni di persone, soprattutto tra le popolazioni indigene e le comunità più povere ed emarginate. E’ un dramma che è destinato a peggiorare, se in queste votazioni  si riafferma l’attuale governo.  Come scriveva già nel settembre 2014 Ashish Kothari[3] , ‘siamo 100 giorni più vicini al suicidio ecologico e sociale’. Kothari si riferiva ai primi 100 giorni di attività del governo di Narendra Modi, un premier che, come si è già accennato –  si è distinto fin dall’inizio del suo mandato per l’attacco su larga scala che ha sferrato alle regole, leggi, istituzioni intese a proteggere l’ambiente. Le peggiori previsioni di Kothari si stanno avverando: è arrivata rapidamente l’autorizzazione ambientale a procedere per alcuni progetti di dighe che da anni erano bloccati per irregolarità, o per la mancata accettazione delle comunità locali, e per la vastità di conseguenze ambientali previste. In qiuesti anni L’India è scesa da 155° al 177° posto nell’Environmental Performance Index (su 180 Stati!). 15 delle 20 città più inquinate del mondo si trovano in India.

L’insostenibilità di certe risorse ‘ rinnovabili’

In tutto il corso del ‘900 la Banca Mondiale ha sostenuto e realizzato importanti progetti di costruzione di grandi dighe, causando lo sfollamento di milioni di persone Negli ultimi anni del secolo, tuttavia, fu la Banca stessa a finanziare uno studio, commissionato alla  World Commission on Dams (WCD), per valutare l’impatto di questi grandi progetti idrici e formulare raccomandazioni per il futuro. I risultati di quello studio furono pubblicati nel 2000, e la documentazione dei danni sociali e ambientali delle grandi dighe convinse i responsabili della Banca Mondiale a ritirare il  loro sostegno finanziario. Ma durò poco.  In questi ultimi vent’anni la proposta di costruire dighe sempre più grandi è stata accolta con crescente favore: le imprese multinazionali, d’intesa con i governi di molti Paesi del Sud del mondo (in America Latina, in Africa, nell’Asia meridionale) e con ricchi imprenditori ‘globali’,  di fronte alla necessità di ridurre la produzione di gas climalteranti, propongono di spostarsi dai combustibili fossili alle fonti ‘rinnovabili’, costruendo appunti enormi dighe.  Questa prospettiva trascura completamente  l’evidenza dell’enorme impatto sociale e ambientale provocato  da questi progetti: nel caso delle grandi dighe la produzione di energia idroelettrica – anche se si tratta di una fonte rinnovabile – è certamente insostenibile.

Dall’India al mondo…

La mostra ‘India invisibile’ e la rassegna di film ad essa associata,  insieme alla testimonianza portata dai ricercatori e ricercatrici  che sono stati impegnati nel progetto,  favorisce una crescita di consapevolezza delle problematiche causate da un modello di sviluppo che non ha tenuto conto né dei limiti  biofisici del pianeta,  né delle esigenze di giustizia sociale.

Il caso  delle grandi dighe  mette chiaramente in evidenza l’insostenibilità  di questa scelta. Nel mondo coloro che sono costretti ad abbandonare le loro case, che vengono sommerse nella formazione del lago artificiale prodotto dallo sbarramento, sono solo le vittime più visibili. Ma sono altri milioni in più che perdono la casa e le terre,   occupati da canali, sbarramenti, strade, linee elettriche, insediamenti industriali costruiti intorno alle dighe[4].

E molti di più ancora perdono la possibilità di accedere ad acqua pulita, risorse alimentari  e ambientali. Milioni di persone sono colpite da disturbi legati all’acqua, soprattutto nelle aree tropicali, in cui si sviluppano insetti  portatori di malattie. Si stima che tra 400 e 800 milioni di persone – circa il 10% dell’umanità –  abbiano subito gli effetti negativi delle grandi dighe. Alcuni esempi tra i tanti.

  • La diga di Merowe Dam nel Nord Sudan è uno dei progetti idroelettrici più distruttivi al mondo. Costruita sulla quarta cataratta del Nilo  tra il 2003 e il 2009, ha creato un bacino artificiale lungo  174 km,  e ha obbligato più di 50.000 persone ad abbandonare la fertile Valle del Nilo per stanziarsi  in zone desertiche (.https://www.internationalrivers.org/campaigns/merowe-dam-sudan-0)
  • il riempimento del bacino idrico dietro la diga Gibe III sul fiume Omo (costruito dall’impresa italiana Salini)  sta trattenendo i flussi necessari a circa 400.000 indigeni nel sud dell’Etiopia e nel nord del Kenya per sostenere la loro produzione di cibo e mezzi di sussistenza (https://www.identitainsorgenti.com/etiopia-gibe-iii-e-il-disastro-umanitario-di-una-diga-tutta-italiana/)
  • La Malaysia-China Hydro, che ha costruito la diga di Bakun nel Sarawak, la definisce “il futuro della Malesia nel settore dell’energia pulita”.La diga ha sfrattato migliaia di indigeni, strappandoli dalle terre e dalle sicurezze che esse fornivano loro. Le persone colpite dalla costruzione della diga di Bakun sono gli abitanti di 15 villaggi, circa 20.000 persone sono state forzate a lasciare le loro case e sono state ricollocate in una nuova area (https://cycloscope.net/dighe-borneo-baram-bakun-murum)

Dal dramma mondiale… verso una resistenza globale

Un recente articolo pubblicato da Daniela Del Bene et al.[5]  presenta un’analisi di 220 casi di  conflitto collegati alla costruzione di grandi dighe,  sottolineando – da un lato – la natura nonviolenta della maggior parte delle manifestazioni di protesta, e – dall’altro – l’estrema violenza delle repressioni messe in atto dai poteri forti coinvolti nel conflitto. Repressioni che spesso  si traducono in assassinii,  tanto più numerosi quanto più le comunità resistenti sono comunità indigene. Nel 2014, su 116 uccisioni documentate, 47 erano indigeni; nel 2015,  67 su 185 erano indigeni (dati di Global Witness[6])

La mappa – tratta dal sito – dell’Environmental Justice Atlas (https://ejatlas.org/type/dams-and-water-distribution-conflicts) con l’indicazione dei luoghi in cui sono situati i 220 conflitti esaminati nell’articolo di Del Bene et al.

Visitare la mostra fotografica, assistere a filmati che documentano le condizioni di profonda e crescente ingiustizia sociale e di dilagante degrado ambientale, possono demoralizzare il pubblico. Proviamo pietà per le sofferenze e le ingiustizie patite da queste comunità, vittime indifese che non sono riuscite a entrare nel processo di sviluppo…; magari ci sentiamo corresponsabili, perché la nostra società, le nostre scelte di vita hanno sicuramente un ruolo nel produrre e riprodurre questa situazione.  Siamo anche preoccupati, perché – anche se ci siamo resi conto della necessità di cambiare  – ci sembra difficile agire in modo efficace per contrastare il cambiamento climatico. Ebbene, nell’articolo sopra citato di Daniela del Bene et al. possiamo trovare qualche elemento di orientamento.

  • La costruzione di grandi dighe – che viene presentata come soluzione efficace per combattere il cambiamento climatico – in realtà si basa su un equivoco, ben orchestrato dai fautori del ‘green washing’:  ma energie ‘rinnovabili’ NON è sinonimo di energie ‘sostenibili’.  I disastri ambientali e sociali di queste grandi infrastrutture sono ormai chiaramente documentati, e i cittadini e i governi hanno il dovere di opporsi a questi progetti.
  • E’ ampiamente documentato che in tutto il mondo le più numerose forme di opposizione alle ‘grandi opere’ – siano essere dighe, aeroporti, grandi impianti industriali ecc. –  sono espresse in forme nonviolente, mentre la repressione del dissenso  è sistematicamente caratterizzata da violenza diretta fino all’omicidio) e indiretta (delegittimazione, repressione, criminalizzazione…), spesso  protetta  dall’impunità assicurata dai governi.
  • La collaborazione tra studiosi, attivisti, comunità di base, associazioni per i diritti, gruppi di cittadini  ecc. può dar luogo a una forza politica potente, in grado di contrastare  i progetti estrattivisti mettendone in luce l’incompatibilità con i sistemi di riferimento economici, culturali e spirituali dei territori coinvolti.
  • La transizione da un modello di sviluppo distruttivo, che oltre al  degrado ambientale e all’ingiustizia sociale sta alterando i cicli biogeochimici e sta perturbando  i  grandi flussi oceanici e atmosferici del pianeta,  può ricevere linfa vitale e orientamento proprio dalle popolazioni che attualmente sono le maggiori vittime di tale modello.
  • Oltre a denunciare gli abusi e le ingiustizie nei loro confronti, possiamo contribuire a dare loro voce e ‘visibilità’, e a renderli ‘soggetti’, protagonisti  di un movimento globale che applichi l’azione non violenta non solo per resistere, ma per proporre nuove visioni e nuovi modi di vivere.

NOTE:

[1] Gadgil & Guha. Ecology and Equity, Routledge 1995.

[2] https://www.internationalrivers.org/

[3] Economic and Political Weekly, 2014.

[4] https://assets.survivalinternational.org/documents/375/Rapporto_Survival_Grandi_Dighe.pdf

[5] Daniela Del Bene, Armin Scheidel  & Leah Temper. More dams, more violence? A global  analysis of resistances and repression around conflictive dams through co-produced knowledge. Sustainability Science, 2018.

[6] https://www.globalwitness.org/it/

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Elena Camino è membro della rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e Gruppo ASSEFA Torino.

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