(Italiano) Il mondo digitale: «immateriale» oppure ecologicamente distruttivo?

ORIGINAL LANGUAGES, 8 Nov 2021

Elena Camino | Centro Studi Sereno Regis – TRANSCEND Media Service

Photo by Alina Grubnyak on Unsplash

La natura sulle spalle…

3 Nov 2021 – Il concetto di ‘zaino ecologico’ è stato proposto dagli studiosi del Wuppertal Institute alcuni decenni fa, per rendere facilmente comprensibile al pubblico l’idea che ciascuno di noi, nel fare uso di un oggetto, non ‘utilizza’ solo l’oggetto stesso, ma anche una quantità di energia e di materia che viene prelevata o riversata nell’ambiente esterno, e che resta in buona parte invisibile all’utilizzatore.

Grazie alle ricerche sempre più approfondite svolte dagli studiosi è diventato possibile calcolare con buona approssimazione il peso di molti ‘zaini ecologici’ di cui abbiamo bisogno per utilizzare oggetti (un telefono cellulare, un anello d’oro, un tavolo di legno, un bicchiere di  plastica…)  o per svolgere attività nella nostra vita quotidiana (spostarci in auto, consumare una bibita ecc.).   Ognuno di questi zaini, pur se invisibile ai nostri occhi, ‘contiene’ ciò che noi preleviamo dalla natura, in termini di materia e di energia, e anche ciò che noi imponiamo alla natura (per es.  i rifiuti e il loro smaltimento).  Quindi il ‘peso’ dello zaino è determinato da:

  1. Il materiale utilizzato per produrre l’oggetto (o fornire il servizio)
  2. L’energia (fornita per lo più da combustibili fossili) impiegata per l’estrazione e la lavorazione, e l’energia richiesta per il trasporto della merce
  3. Rifiuti prodotti dalla fabbricazione
  4. Rifiuti che l’oggetto stesso produce

È stato calcolato che una tonnellata di carbone ha uno zaino di 10 t; un Km in auto o un’ora di trasmissione TV utilizzano rispettivamente 1 e 2 kg di risorse. Un anello d’oro che pesa 10 gr porta sulle spalle uno zaino di 3 tonnellate! E un microprocessore di computer, del peso di 2 gr?

Un cellulare da 150 kg…

Sul numero di ottobre 2021 della rivista ‘Le monde diplomatique’ (abbinata al quotidiano ‘Il Manifesto’) è stato pubblicato un articolo di Guillaume Pitron dal titolo “Se il digitale distrugge il pianeta”. Questo Autore era già noto al pubblico italiano perché un paio di anni fa era stata pubblicata la traduzione italiana di un suo libro:  La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica digitale, LUISS University Press, Roma 2019.  Una recensione di Simone Pieranni per il Manifesto –  Dentro la transizione digitale ed energetica che ci interpella. – era stata riportata anche sul sito del CSSR, nell’area ‘MATERIALI’ in cui sono raccolte informazioni, documenti, cicli di lezioni sul tema ‘slow tech’. Nel lungo e articolato articolo pubblicato su Le Monde Diplomatique, Guillaume Pitron mette in luce alcuni aspetti inquietanti dell’industria digitale, che a suo parere è stata illusoriamente considerata ambientalmente ‘pulita’ perché <immateriale>.

Un’inchiesta condotta su più continenti rivela i costi ambientali esorbitanti del settore delle tecnologie informatiche. Riprendendo il concetto di ‘zaino ecologico’(più scientificamente definito come Mips = Material Input Per Service Unit, cioè la quantità di risorse necessarie per fabbricare un prodotto o un servizio) , Pitron segnala che un minuto al telefono <pesa> 200 gr, e un SMS <pesa> 632 gr. Nel settore delle tecnologie digitali, dove vengono utilizzati vari componenti che contengono metalli rari, difficili da estrarre dai minerali che li contengono, il peso dello zaino ecologico diventa straordinariamente elevato, soprattutto se messo a confronto con il peso dell’oggetto (o con il servizio che offre).  Il Mips di un televisore varia da 200/1 a 1000/1, mentre quello di uno smartphone è 1200/1, cioè 183 Kg di materie prime per 150 gr di prodotto finito. Ma è il Mips di un chip elettronico che batte tutti i record: 32 kg di materiale per un circuito integrato di 2 gr, cioè un rapporto di 16.000 /1.

Mostri di cemento e acciaio

Le tecnologie che ci vengono presentate come ‘dematerializzate’ in realtà hanno bisogno, per funzionare, di infrastrutture per trasportarle, immagazzinarle, elaborarle. Come ricorda Guillaume Pitron nel suo articolo, “per compiere azioni impalpabili come inviare una lettera di posta elettronica, un messaggio su What’sApp, un Emoticon su Facebook o un video su TikTok, abbiamo messo su un insieme di ’infrastrutture che presto sarà probabilmente l’’oggetto’ più grande costruito dalla specie umana”. Tra queste infrastrutture materiali e concrete i ‘data center’ occupano un posto di rilievo: sono enormi edifici di cemento e acciaio che ospitano i server, deputati a raccogliere, gestire, smistare, elaborare, archiviare un numero sempre crescente di dati. Con miliardi di server, antenne, router, hotspot, WiFi in funzione – osserva Pitron –  le tecnologie ‘dematerializzate’ stanno diventando una delle più grandi imprese di materializzazione di sempre.

Centri affamati di energia

I centri di elaborazione data (‘data centres’) sono infrastrutture informatiche che svolgono una gran quantità di servizi.  Oltre a fornire la capacità computazionale richiesta per mantenere operativi grandi portali internet (come Amazon o Google) garantiscono molti servizi di connettività (come la piattaforma Zoom). Pitron sottolinea però che la maggior parte dell’attività è dedicata all’analisi dei dati degli utenti a scopi commerciali (data mining). Per poter operare in modo ottimale i data centres hanno bisogno di una grande velocità di calcolo e di un funzionamento senza interruzioni.

Per questo vengono costruiti secondo un principio di ridondanza, dotandosi di strutture di scorta (gruppi elettrogeni, enormi sistemi di raffreddamento, gigantesche scorte di batterie) per far fronte molto rapidamente a qualunque imprevisto o guasto.  Questo implica che – data l’attuale rapida espansione del numero di data centres – anche il loro consumo di energia sta crescendo in modo preoccupante: secondo Pitron (ma su questo dato sono presenti varie interpretazioni) i data centres incidono per il 2% sul consumo elettrico a livello mondiale (prodotto per lo più da fonti fossili, in particolare carbone).  In una prospettiva di transizione ecologica questo fatto, insieme all’enorme consumo di acqua per raffreddare i circuiti elettrici, rende il mondo digitale sempre più ambientalmente insostenibile.

L’inferno digitale, viaggio al termine di un like

I lettori interessati troveranno nell’articolo prima citato di Guillaume Pitron  (‘Se il digitale distrugge il pianeta’) numerose altre informazioni e spunti di riflessione.  Inoltre trascrivo qui alcune osservazioni fatte da Pitron nel corso di una recente intervista in cui vengono ripresi alcuni argomenti trattati in un libro che ha da poco pubblicato:L’enfer numérique, voyage au bout d’un like.

Giornalista  — nell’introduzione del suo libro lei si rivolge ai giovani della ‘generazione – clima’ dicendo loro che si battono per il clima a colpi di  hashtags. Stanno perdendosi qualcosa?

Guillaume Pitron — C’è un rischio. Stanno affrontando problemi ambientali reali: aviazione, carne, plastica, ecc. Io sono in linea con loro su questo. Allo stesso tempo, però, non si rendono conto di come la loro modalità di consumo digitale abbia conseguenze dirette e importanti. Mi cadono le braccia quando leggo in uno studio che un ragazzo di 18-25 anni in Francia ha già posseduto sei telefoni cellulari. Questa generazione non si rende conto di avere comportamenti contraddittori. Il digitale è estremamente comodo, dà una sensazione di emancipazione, ci fa sentire degli Dei ogni giorno. Mi chiedo se questa generazione resisterà a questa arroganza. Sarà più saggia della generazione precedente? È lecito dubitarne.

Giornalista. Le è risultato difficile valutare l’impronta ecologica del digitale. Come mai?

GP. Quando si fa questa domanda, quando si chiede qual è il costo ambientale di un video online, una email o un like, nessuno è d’accordo. Siamo di fronte a due posizioni estreme. Da un lato, la lobby digitale europea ha prodotto un proprio studio, chiamato Smarter2030, in cui sostiene che la tecnologia digitale avrà da 10 a 15 volte più effetti benefici sull’ambiente rispetto alle sue conseguenze negative. Mi ci sono volute solo due telefonate per sapere che anche le persone che hanno firmato il rapporto non ne erano orgogliose. All’altro estremo c’è il rapporto dello Shift Project, che conclude che il danno è più grave degli effetti benefici. Non credo ai primi, non so cosa pensare dei secondi.… Non è normale che nell’era dell’intelligenza artificiale, dell’apprendimento automatico, dei big data, non siamo capaci di calcolare il costo ecologico di un’e-mail o di un like. Quindi penso che non si sappia perché non lo si vuol sapere; perché sta bene a tutti.

Giornalista. Se ci lasciamo sfuggire di mano la ‘macchina digitale’, diventerà incontrollabile anche la crisi ecologica?

GP Nel settore finanziario assistiamo a una deresponsabilizzazione che consiste nel dire che gli errori di investimento sono colpa della macchina. Se la lotta al cambiamento climatico fallisce è perché le macchine hanno investito male! …. Eppure siamo noi responsabili, siamo noi che abbiamo creato l’algoritmo e possiamo cambiarlo. Non lo facciamo. La lotta per il futuro dell’umanità sta forse per disumanizzarsi?

NOTA. L’intervista è ben più ampia di quanto riportato qui, e affronta molti altri temi interessanti, soprattutto a proposito delle implicazioni del digitale sulle condizioni ambientali, sulle strategie di ‘invisibilizzazione’ delle infrastrutture, sulla manipolazione dell’immaginario collettivo, sulle ricadute sociali (in termini di perdita di privacy e di condizioni degli operatori).

L’impatto dello streaming: trascurabile o devastante?

L’impronta ecologica, il Mips, i consumi di energia connessi alle nostre attività ‘digitali’ non ci aiutano molto a capire quali sono davvero le nostre responsabilità; è forse più efficace offrire esempi concreti. Un recente articolo pubblicato su  ‘The Guardian’ offre la possibilità di ragionare su una attività specifica e ampiamente praticata: la visione in streaming di film, notizie, spettacoli TV ecc.

Secondo l’Autore dell’articolo, Mark Sweney, mentre molte delle campagne per la lotta al cambiamento climatico sono focalizzate sui viaggi aerei, l’uso dell’automobile, le scelte alimentari, poca attenzione si presta allo straordinario successo di servizi di intrattenimento casalingo – da Disney+ a Netflix –  che pone un nuovo interrogativo: quanto male fa lo streaming al pianeta? Netflix ha stimato che un’ora di streaming da parte di un privato sulla propria postazione produce “assai meno” di 100 gr di CO2 equivalente, un’unità di misura che esprime l’impatto ambientale in termini di CO2 prodotta. La Carbon Trust,  un’Associazione di consulenza che suggerisce a imprese e governi come ridurre il loro impatto ambientale, fornisce un dato numerico interessante: in Europa ogni ora di video in streaming produce circa  55 – 56 g di CO2. L’equivalente di quanto si produce nel guidare un’auto per 300 metri.  Una quantità trascurabile…

Il mondo digitale
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Netfix ha di recente reso noto un dato sui suoi utenti. Nei primi 28 giorni di disponibilità dei 10 video più gettonati (che comprendono Squid Game, Stranger Things, Money Heist e Bridgerton) questi sono stati complessivamente visti per 6 miliardi di ore. L’equivalente di guidare un’auto per 1,8 miliardi di Km, circa la distanza tra la Terra e Saturno. Quando Netfix dichiara di puntare a ridurre le proprie emissioni di carbonio, prende in considerazione solo le proprie attività (la creazione e la produzione di film e video), e attribuisce ai provider di internet e ai  produttori di TV, iPad e cellulari la responsabilità di minimizzare il loro carico ambientale.

Poi, a valle della produzione e distribuzione di notizie, film e video (non solo Netfix, dunque!) ci sono poi gli utenti finali: attualmente si stima che gli utenti di youtube siano 2,4 miliardi di persone che – senza neppure alzarsi dalla sedia o dal divano – contribuiscono a riscaldare il pianeta.

Dunque le scelte individuali di ciascuna/o di noi – singolarmente trascurabili – diventano cruciali nel favorire o contrastare il cambiamento climatico!

Un link per approfondire

The Shift Project è un ‘associazione francese di esperti che sostiene il passaggio a un’economia post-carbone, ed è impegnata a servire l’interesse generale della società civile sviluppando progetti e proponendo percorsi educativi sulle problematiche della decarbonizzazione, con l’obiettivo di facilitare la transizione energetica in Europa. Tra gli strumenti che mette a disposizione del pubblico ve n’è uno – Carbonalyser – che consente agli utenti di visualizzare i consumi di energia elettrica e le emissioni di gas serra (GHG) a cui porta la loro navigazione in Internet.

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Elena Camino è membro della rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e Gruppo ASSEFA Torino.

 

 

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