(Italiano) Distruggere Hamas? No! Porre fine alla guerra di Gaza e iniziare il processo di pace!

ORIGINAL LANGUAGES, 22 Apr 2024

Richard E. Rubenstein | Centro Studi Sereno Regis - TRANSCEND Media Service

Foto Gustave Deghilage | Stop génocide manifestation nationale en soutien au peuple palestinien  (CC BY-NC-ND 2.0)

– David Brooks ha scritto un lungo articolo per il New York Times sulla guerra a Gaza che si riduce a un teorema: “Se questa guerra finisce con una grossa porzione di Hamas indenne, sarebbe un disastro a lungo termine per la regione”. A meno che non si riesca a distruggere Hamas, sostiene Brooks, dominerà il governo postbellico di Gaza e lancerà altri attacchi a Israele, e “sarebbe impossibile iniziare un processo per la pace”. Benjamin Netanyahu, che chiede la “totale distruzione” di Hamas, concorda.

Senza dubbio, tentare di eliminare la maggiore organizzazione politica e militare di Gaza intensificherà la distruzione catastrofica di vite e dell’ambiente già marchiata come plausibilmente genocidaria dalla Corte [Penale] Internazionale. Secondo Brooks, ciò costringe a una “tragica conclusione”: peccato, ma “non c’è strategia militare alternativa magica”. Chiaramente l’articolista non vuole agire come apologeta di crimini di guerra, ma qui lo fa. Perché? Perché suppone che Hamas sia del tutto dedita alla distruzione degli ebrei d’Israele e che i suoi capi e membri non siano in grado di alterare questa motivazione.

Ha senso questa ipotesi? L’evidenza storica, come pure la nostra conoscenza del movimento nazionale palestinese, suggerisce fortemente di no. Credere che un avversario sia invariabilmente dedito al proprio annichilimento riflette la coscienza traumatizzata di un coinvolto in un sanguinoso conflitto piuttosto che una ponderata valutazione della situazione reale. Hamas di certo vuole cambiare il sistema politico che privilegia sistematicamente gli israeliani ebrei e opprime i palestinesi, ma i suoi capi hanno chiarito di avversare il sionismo “razzista, aggressivo, coloniale ed espansionista” e non gli ebrei in quanto tali.

E ovviamente oltremodo difficile accettare l’idea che un gruppo militante responsabile dell’uccisione di propri amici, parenti, vicini e connazionali possa diventare un competitore non-violento e addirittura un partner per la pace. Spesso si odiano i propri avversari e si cerca di farli soffrire, temere la propria violenza e cercare di farli disperare rendendoli smarriti. Cionondimeno, a seguito di negoziati di pace arditi e creativi, i contendenti in conflitti di atroce violenza per il mondo hanno imparato a vivere con ex-nemici che pur avevano ragione di odiare e temere.

Nell’Irlanda del Nord i repubblicani cattolici e gli unionisti protestanti hanno imparato a condividere il potere pur se organizzazioni come l’Esercito Repubblicano Irlandese (IRA) e l’Alleanza di Difesa dell’Ulster avevano entrambe massacrato civili “nemici”. Sudafricani neri e bianchi hanno concordato un nuovo ordine politico benché militanti dell’African National Congress e del Partito Nazionale si erano terrorizzati l’un l’altro per decenni. I combattenti di sanguinose guerre civili in Liberia, Mozambico, Colombia, Bosnia, Libano, Nepal, Cambogia, e molte altre località sono riusciti a sviluppare rapporti politici e sociali perlopiù nonviolenti benché ciò comportasse ritrattare precedenti promesse solenni di “distruggere totalmente” i propri avversari.

Può avvenire questo in Israele/Palestina? Per intrattabile che paia quel conflitto, la sua storia suggerisce vigorosamente che lo può. Gli israeliani hanno a lungo considerato l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina capeggiata da Yasir Arafat un avversario irrimediabilmente ostile – tant’è vero che sostennero la crescita di gruppi islamisti come Hamas come contrappesi al potere della PLO. (Gli USA sono ricorsi a strategia analoga contro le forze russe durante la guerra URSS in Afghanistan). Ma nel 1988, dopo negoziati seri, la PLO riconobbe lo Stato d’Israele e partecipò ai colloqui ulteriori che produssero gli Accordi di Oslo del 1993.

Quando un conflitto violento tornò alla Terra Santa parecchi anni dopo, ciascuna delle parti accusò l’altra della rottura dei rapporti a causa dell’incurabile malizia altrui. Il primo ministro d’Israele Yitzhak Rabin fu assassinato da un estremista ebreo, e il suo successore, Netanyahu, minò la soluzione a due stati contemplata dagli Accordi. Attacchi terroristici contro civili israeliani furono orditi da organizzazioni estremiste palestinesi come Jihad Islamista e la Brigata dei Martiri di Fatah. Pur così, l’estremismo fu più un sintomo che una causa della rottura del sistema di Oslo. Ciò che era carente fu più il sistema stesso, che non iniziava a risolvere problemi fondamentali come i massicci insediamenti ebraici nei territori occupati, le pretese palestinesi a un diritto al ritorno o a una compensazione per le terre perdute, lo status di Gerusalemme-est , l’ineguale trattamento di ebrei e palestinesi, e altro ancora.

Distruggere Hamas

Foto IDF | Yitzhak Rabin with President Clinton and Yasser Arafat during the signing of the Oslo I Accord in 1993 (CC BY-NC 2.0)


Analogamente, come ha fatto notare il Segretario Generale ONU Guterres, il ricorso alla violenza di Hamas nell’ottobre 2023 “non ebbe luogo in un vuoto”, bensì seguiva 16 anni di blocco di Gaza da Israele, che l’aveva resa uno degli insediamenti urbani più poveri e meno liberi della Terra, e dopo che quattro guerre precedenti di durata relativamente breve avevano ucciso oltre 2.000 civili palestinesi. La leadership di Hamas porta la responsabilità degli orrendi attacchi del 7ottobre e la leadership israeliana della reazione barbaramente sproporzionata dell’IDF, ma le cause della guerra stanno in un sistema strutturalmente violento che favorisce sistematicamente interessi e bisogni vitali degli ebrei israeliani rispetto a quelli palestinesi in Israele e specialmente nei territori occupati.

Per fare una pace che duri, c’è bisogno che sistemi di tal genere vengano cambiati. I conflitti in cui le parti in guerra successivamente imparano a vivere insieme in modo nonviolento sono generalmente risolti da negoziati che creano nuove disposizioni istituzionali che offrano a tutti i contendenti sicurezza, riconoscimento, un mezzo di auto-espressione, e un metodo di condivisione del potere. Che è quanto speravano di fare i procedimenti di Oslo, senza riuscirci perché i negoziatori non considerarono, in una situazione di grave asimmetria di potere, quanto potesse funzionare un’autentica condivisione del potere.

Secondo alcuni commentatori, tale mancata considerazione di un sistema più egalitario è in fondo il risultato del sionismo – un’ideologia e una prassi che definisce Israele come stato ebraico obbligato a subordinare i diritti di altri gruppi abitanti il territorio a quelli dei residenti ebrei effettivi e potenziali. Altri credono che sia possibile riconciliare i principii del sionismo con quelli del pluralismo democratico, per esempio implementando una versione più robusta della “soluzione a due stati” originariamente contemplata dagli architetti del processo di Oslo. In ambo i casi, una pace sostenibile fra israeliani e palestinesi dipenderà dall’accordarsi fra entrambi nel considerare seri cambiamenti in un sistema generativo di conflitto.

Inoltre, se devono aver luogo negoziati di pace al fine di evitare un’interminabile guerra a Gaza che si espande alla Cisgiordania e all’intera regione, ciascun lato deve scegliere i propri rappresentanti. Proprio come gli israeliani decideranno se farsi rappresentare dall’attuale coalizione di governo o da qualche altro portavoce, i palestinesi decideranno se per loro parlerà Hamas, l’Autorità Palestinese, o i membri di qualche coalizione ancora da formarsi, Molto probabilmente, Hamas non siederà al tavolo [negoziale] come unico negoziatore palestinese ma, considerando che i suoi capi sono molto più popolari e di assegnamento che quelli di quasi tutte le altre organizzazioni, le figure associate a quel gruppo avranno sicuramente un ruolo importante.

“Distruggere totalmente” Hamas? Tanto per cominciare c’è la questione se ciò sia possibile. Si dichiarò sconfitto lo Stato Islamico nel 2019 quando perse l’ultimo pezzo del proprio auto-dichiarato Califfato, ma l’ISIS si stima avere 5.000-7.000 combattenti attualmente in Siria e Iraq, e un numero indefinito in Afghanistan e altri luoghi. Se anche fosse possibile eliminare Hamas come forza combattente (a costo di uccidere altre migliaia di palestinesi ed alienarsi i loro amici e discendenti), eliminarli in quanto negoziatori vorrebbe molto probabilmente dire condannare qualunque significativo processo di pace.

Ironicamente, questo è il contrario della dichiarazione di David Brooks che, a meno che sparisca Hamas, sarebbe impossibile un processo di pace. Al contrario della credenza diffusa evidentemente condivisa da Brooks, le lotte civili violente si risolovono di rado efficacemente facendo sì che i moderati di ambo i versanti raggiungano un compromesso. Che è effettivamente quel che è successo a Oslo. Invece, i cambiamenti di sistema necessari per risolvere conflitti civili “intrattabili” dipendono da dialoghi che comprendono gruppi militanti ben considerati, come evidenziatosi nei negoziati in Irlanda del Nord, Mozambico, SudAfrica, e altrove. Le discussioni di pace in grado di porre fine alla violenza strutturale che genera tali guerre devono coinvolgere forze capaci di criticare e ricostruire sistemi carenti, cioè gruppi che iniziano come ribelli violenti (“estremisti”) contro l’ordine esistente.

Possiamo essere d’accordo, forse, che bisognerebbe trovare e punire i ribelli violenti che attaccano civili, quali molti capi e membri di Hamas sono già stati. Per lo stesso principio, dovrebbero essere trovati e puniti anche i repressori violenti che massacrano civili e commettono crimini di guerra, come dovrebbero essere alcuni capi israeliani e combattenti delle IDF. Ma la pace dipenderà da rappresentanti di ambo i lati, compresi alcuni con le mani sporche di sangue, che si accordino per cambiare un sistema intrinsecamente violento.

Il sistema comprende gli Stati Uniti come finanziatori e manipolatori di gruppi mediorientali in conflitto. Quindi il governo USA può accordare poco più che mera liturgia della parola all’obiettivo di un cambiamento significativo in Israele/Palestina. Gli americani hanno parlato in termini in stile Oslo di resuscitare la soluzione a due stati, ma i loro evidenti piani di continuare a finanziare la guerra contro Hamas e insediare l’Autorità Palestinese (o i sauditi!) al comando di Gaza suggeriscono che sono invece ben decisi a mantenere la propria egemonia imperiale nella regione, indifferentemente a quel che comporta.

Distruggere Hamas, pare chiaro, non è la strada per la pace. Dipendendo una pace sostenibile in Medio Oriente da cambiamenti di sistema che soddisfino tutti i bisogni basilari delle parti in gioco, il fato delle organizzazioni militanti palestinesi a Gaza e in Cisgiordania è intimamente collegato alla creazione di un autentico processo di pace anziché una vana messinscena. Per questo come per ragioni umanitarie, è tempo stramaturo che finiscano le uccisioni di civili e di combattenti a Gaza.

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Richard E. Rubenstein è membro della Rete TRANSCEND per Pace Sviluppo Ambiente e professore di risoluzione dei conflitti e di affari pubblici al Centro per Pace e Risoluzione dei conflitti Jimmy & Rosalyn Carter della George Mason University. Laureato al Harvard College, alla Oxford University (Studioso di Rhodes), e alla Scuola di Diritto di Harvard, Rubenstein è autore di nove libri sull’analisi e risoluzione di conflitti sociali violenti. Il suo libro più recente è Resolving Structural Conflicts: How Violent Systems Can Be Transformed (Routledge, 2017). Il suo libro in fieri la cui edizione è attesa nell’autunno 2021, è Post-Corona Conflicts: New Sources of Struggle and Opportunities for Peace.

Original in English: Destroy Hamas? No! End the Gaza War and Begin the Peace Process! – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

Go to Original – serenoregis.org


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