(Italiano) Risoluzione dei conflitti tra tabù politici e polarizzazione

ORIGINAL LANGUAGES, 10 Nov 2025

Richard E. Rubenstein | Centro Studi Sereno Regis - TRANSCEND Media Service

Foto di Jon Tyson su Unsplash

 – Come i tabù politici sovvertono la risoluzione di conflitti e producono polarizzazione radicale

Un principio fondamentale della risoluzione di conflitti è “moltiplicare le opzioni per un accordo”. Per massimizzare le chance di conseguire una pace sostenibile, bisogna che le parti di gravi conflitti sociali considerino la gamma più ampia di scelte per risolverli. In pratica, però, le opzioni sono spesso ristrette ad azioni ritenute accettabili da figure potenti con interessi a preservare un qualche status quo di sistema. le opzioni che propongano di trasformare strutture socioeconomiche, politiche, o culturali esistenti sono considerate tabù e sgombrate dal tavolo [negoziale]. ne risulta che si perdano opportunità di risolvere conflitti in modo sostenibile. Lotte che potrebbero essere efficacemente risolte o mitigate si fanno apparentemente intrattabili e pare sempre più probabile una violenza civile.

Tale dinamica sotterranea sta attualmente intensificando la polarizzazione politica negli Stati Uniti e in molte altre nazioni. La gente si sente afflitta da problemi irrisolti – salari stagnanti, insicurezza occupazionale, degrado ambientale, cattivi servizi pubblici, famiglie disfunzionali, abuso sbrigliato di sostanze [alteranti], crimini violenti, e sensazioni di solitudine e disperazione.  Come ripetutamente indicato da Johan Galtung nei suoi studi della “violenza strutturale”, tali problemi sono generati in gran parte da sistemi di potere e prestigio deficitari piuttosto che da errori di conduzione politica o pecche di carattere personale. Eppure alla gente per il mondo s’insegna a incolpare mali endemici o cattivi capi o difetti di personalità anziché i sistemi “sacrali” come il mercato capitalista e la nazione etno-politica o imperiale.

Il tabù capitalista del mercato

Fra le costrizioni più potenti nel limitare l’immaginazione di contendenti e aspiranti risolutori ci sono quelle che prescrivono di prendere in considerazione cambiamenti sostanziali alle strutture esistenti del (“tardo”) capitalismo oligopolista. Il sistema profittuale si considera sacro. Negli Stati Uniti, proposte di ridistribuire patrimonio o reddito, di dare ai lavoratori un ruolo più decisive nella produzione, o di aumentare il potere del governo sulle megaziende e sui mercati capitalistici sono etichettate come “socialiste” e il socialismo è identificato col comunismo totalitario.

In Europa e altrove le riforme patrocinate da social-democratici moderati non vengono per forza tabuizzate, ma i suggerimenti più radicali (p.ex., che istituzioni pubbliche assumano il controllo di settori industriali o diano precedenza a diritti collettivi) tendono ad essere scartate come “comuniste”. Ne risulta che proposte di risolvere problemi come il cambiamento climatico, le migrazioni di massa, e la povertà endemica subordinando gli interessi del grande capitale a quelli di istituzioni a controllo comunitario o di lavoratori si considerino utopiche e ci si rifletta seriamente di rado e ancor meno se ne discuta.

I tabù della nazione etno-politica e imperiale

Un tempo, essere politicamente “progressisti” implicava immaginare e patrocinare lo sviluppo di entità internazionali, politiche, economiche, e culturali, che trascendessero lo stato-nazione e movessero in direzione di una comunità umana universale. Come espresso (fra molti altri) da Karl Marx, il nostro destino collettivo da esseri umani era risolvere i conflitti sociali solubili sviluppando una “coscienza di specie” che relativizzasse (non necessariamente eliminasse) forme più limitate di coscienza di gruppo, fra cui il nazionalismo, ponendo fine al guerreggiare fra stati.

Invece di una coscienza globalizzata, abbiamo però assistito alla globalizzazione del capitale, al sorgere di superstati imperialisti, e a una marea mondiale di etno-nazionalismo. Tabù è adesso sfidare il primate politico e morale della nazione; neppure partiti politici descritti di “estrema sinistra” sono disposti a correre il rischio di venir chiamati traditori della tribù nazionale. Ne risulta che soluzioni a problemi che, irrisolti, generano terrorismo e guerra sono considerate impensabili se sfidano la sovranità nazionale o subordinano il presunto “interesse nazionale” a qualche più ampio interesse basato sulla classe sociale o sui diritti umani.

Tutto ciò solleva l’inevitabile domanda: cui bono? Chi ci guadagna a mantenere questi tabù? Chiaramente, i loro principali beneficiari sono le élite che dominano i sistemi sia tardo-capitalistici sia etno-politici – nel caso di stati o associazioni imperialiste, un’élite intrecciata di oligarchi, alti politici, e capi militari. Cionondimeno, poiché i tabù non risolvono i conflitti sospinti da problemi, qualcosa come una legge di rese calanti mina anche l’autorità delle élite. Col continuo fallimento dei sistemi e il peggiorare dei problemi sociali, membri lesi delle comunità cercano disperatamente bersagli alla propria rabbia e frustrazione crescente, e leader demagogici sono ben lieti di offrir loro capri espiatori “accettabili” (non soggetti a tabù).

Qualche esempio:

Quando i salari continuano a stagnare o calare, se la fonte del problema non è il sistema di mercato tardo-capitalista, la colpa dev’essere di un flusso d’immigranti o di qualche altro “nemico all’interno”. Quando gli oligarchi diventano multimiliardari investendo in aziende militar-industriali mentre i servizi pubblici civili si deteriorano, se la fonte del problema non è l’etno-stato imperialista, la colpa dev’essere di qualche potenza straniera aggressiva o qualche altro “nemico al di fuori”. E se le comunità deindustrializzate sono colpite da famiglie disastrate, violenza personale, e dipendenza da droghe, se le fonti della violenza non sono sistemiche, la colpa dev’essere di qualche combinazione di nemico esterno (attivisti anti-cristiani, per dire, o “antifa”[-scisti, evtl. antibellici, ndt]) e nemico esterno (cartelli della droga esteri).

I tabù così producono capri espiatori  – ma prendersela in tal modo con le popolazioni vulnerabili non è più efficace dei i tabù nel risolvere i problemi sistemici generatori di conflitto. Gli esiti inevitabili, se non cambia altro, sono un’ulteriore radicalizzazione dei gruppi afflitti, più intensa polarizzazione dei contendenti, governi che appaiono sia autoritari che inefficaci, e una maggiore probabilità di violenza civile e fra stati. Arrestare tale spirale discendente richiede di sfidare i tabù che attualmente ci proibiscono di pensare ai cambiamenti proposti nei sistemi esistenti di potere e di valore. E’ vitale capire che superare tali tabù non significa adottare specifici cambiamenti alteranti i sistemi, non vuol dire che la gente comune invece delle élite arrivi a decidere quali cambiamenti, se mai, abbiano senso per sé e prendano decisioni basate su tale concezione.

Sappiamo che le istituzioni economiche, politiche, e culturali sono costantemente in cambiamento. La trasformazione è divenuta la norma. Ma la “democrazia” è definita in modo così restrittivo che, anche in società che si considerino democratiche, le decisioni sulla trasformazione sistemica sono riservate a quelli che Johan Galtung chiamava “[cani] capi-branco”: i padroni dei principali sistemi. La pace sostenibile e la risoluzione di conflitti a lungo termine dipendono dall’asserzione del resto di noi del diritto di partecipare in modo decisivo a determinare come i sistemi che adesso generano indigenza, violenza e disperazione possano diventare generatori di prosperità, pace, e gioia. Spostare la democrazia al livello di sistema potrebbe essere il prossimo passo nella nostra evoluzione sociale e politica.

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Richard E. Rubenstein è membro della Rete TRANSCEND per Pace Sviluppo Ambiente e professore di risoluzione dei conflitti e di affari pubblici al Centro per Pace e Risoluzione dei conflitti Jimmy & Rosalyn Carter della George Mason University. Laureato al Harvard College, alla Oxford University (Studioso di Rhodes), e alla Scuola di Diritto di Harvard, Rubenstein è autore di nove libri sull’analisi e risoluzione di conflitti sociali violenti. Il suo libro più recente è Resolving Structural Conflicts: How Violent Systems Can Be Transformed (Routledge, 2017). Il suo libro in fieri la cui edizione è attesa nell’autunno 2021, è Post-Corona Conflicts: New Sources of Struggle and Opportunities for Peace.

Original in English: How Political Taboos Subvert Conflict Resolution and Produce Radical Polarization TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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