(ITALIAN) ISRAELIANI E PALESTINESI: OCCHO PER OCCHIO?

COMMENTARY ARCHIVES, 26 Feb 2009

Parvez Ahmed

In un momento in cui così tanto sangue innocente è stato versato, è difficile riuscire a  pensare al perdono. Ma è tempo che i palestinesi comincino a delineare un nuovo percorso per portare avanti la loro lotta, un percorso orientato alla nonviolenza – afferma il commentatore indiano-americano.

Quando Israele ha lanciato le sue bombe americane nuove di zecca su Gaza, la mia casa non si trovava sulla traiettoria. Quando le Forze di Difesa Israeliane (IDF), a quanto si dice, hanno usato il fosforo bianco in zone di Gaza densamente popolate, i miei bambini non hanno corso alcun rischio.

Quando Israele ha utilizzato a Gaza proiettili DIME (Dense Inert Metal Explosives), non ho sentito il dolore causato da questi concentrati letali, che rilasciano polvere di tungsteno, che inizialmente causa lievi ferite addominali, le quali però poi degenerano in gravi lesioni a diversi organi.

Il 4 novembre 2008 non ero a Gaza, quando Israele ha violato la tregua uccidendo sei uomini armati di Hamas. Non ero a Sderot, quando Hamas ha risposto con razzi, terrorizzando gli israeliani e uccidendo alcuni innocenti. Non sono tra coloro che hanno sofferto mentre Gaza diventava un ammasso di miseria umana.

Tutto ciò è avvenuto ancor prima che l’attuale conflitto causasse la morte di oltre 1.400 palestinesi, la maggior parte dei quali civili e il 40% costituito da donne e bambini. Non sono nemmeno tra le 50.000 persone rimaste senza una casa. Non sono infine un responsabile delle Nazioni Unite, il cui Segretario Generale ha espresso indignazione ed ha deciso di avviare indagini per capire perché Israele abbia lanciato bombe su edifici e scuole dell’ONU, dove si rifugiavano civili e bambini.

Posso non avere un’esperienza personale di tutti questi orrori, ma posso comprenderne gli effetti.

I palestinesi non soffrono solo a causa della brutalità degli israeliani, ma anche per la mancanza di una forte leadership araba e per l’indifferenza generale della comunità mondiale. Anche gli israeliani soffrono, seppur ad un livello molto minore. Eppure, in questo momento di dolore, palestinesi ed israeliani dovrebbero cercare il cambiamento.

E’ il momento, per i palestinesi, di intraprendere una nuova fase di resistenza nonviolenta, come quella di Gandhi, King e Mandela, la quale trova fra l’altro una significativa base normativa nell’Islam. Gli israeliani dovrebbero prestare più attenzione alle parole del nuovo presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che ha ricordato al mondo che alla fine tutti i leader saranno giudicati in base a ciò che hanno costruito, e non in base a quello che hanno distrutto.

Parlando di nonviolenza, non mi sto dichiarando pacifista. So bene che la maggior parte delle filosofie del mondo, religiose e laiche, antiche e moderne, sebbene rifiutino gli orrori e gli eccessi della guerra, ne riconoscono la necessità occasionale. Gandhi afferma che se le persone “vogliono predicare la pace, devono prima provare la loro abilità in guerra”.

Sostiene inoltre che “una nazione che non sa combattere non ha esperienza sufficiente per provare la virtù del non combattere”. Hamas ha dato prova della sua straordinaria capacità di soffrire, sopportare e contrattaccare. Le IDF hanno dimostrato la loro abilità di uccidere impunemente. Nella visione di Gandhi, soltanto loro possono pienamente apprezzare i vantaggi della nonviolenza.

Ho letto e riletto tutti i testi islamici che forniscono una giustificazione alla resistenza ad un’occupazione avvenuta con la forza. Tuttavia, gli stessi testi che danno ai musulmani il diritto di reagire, esaltano allo stesso tempo anche la virtù del proteggere gli innocenti che non combattono, e mettono in risalto il valore del perdono.

In alcuni dei peggiori momenti di disperazione, il profeta Muhammad ha scelto il perdono e la misericordia invece della condanna. Non c’è quindi da sorprendersi, se Dio Onnipotente nel Corano descrive il profeta Muhammad come una “misericordia per l’umanità” (o per il creato, per essere esatti).

Di fronte alla brutalità e all’umiliazione quotidiana, è difficile per i palestinesi riuscire ad abbracciare la via della resistenza nonviolenta. Così come è stato difficile per Gandhi cercare di avere la meglio sul potente impero britannico, la cui presenza in India era tanto devastante quanto l’occupazione israeliana. Così come i palestinesi hanno dovuto affrontare la battaglia di Jenin, Gandhi aveva affrontato il massacro di Jallianwala.

Un contemporaneo di Gandhi, Khan Ghaffar Khan, un musulmano della provincia della Frontiera del Nordovest dell’attuale Pakistan, fondò la “Khudai Khidmatgar” (letteralmente “Servi di Dio”, rappresentò un movimento di resistenza nonviolenta all’occupazione britannica, che si affermò fra i pashtun a partire dal 1926; esso si basava su due elementi, l’Islam e il Pashtunwali (il codice tribale pashtun); il movimento fu bandito e represso dopo la partizione fra India e Pakistan (N.d.T.) ), che prevedeva la nonviolenza, non solo come politica, ma anche come stile di vita. Khan Ghaffar Khan è stato un pioniere del movimento della nonviolenza, ed il suo contributo nell’allontanare la presenza britannica non è stato meno importante di quello di Gandhi.

La resistenza nonviolenta aiuterebbe la Palestina ad ottenere la libertà molto più di qualsiasi razzo lanciato contro Israele. Rappresenterebbe sicuramente una dimostrazione di forza di gran lunga superiore rispetto a qualsiasi arma ad alta tecnologia che Israele possa lanciare contro aree densamente popolate.

Non si può razionalizzare la morale che porta a lanciare razzi contro le città israeliane o a mandare attentatori suicidi contro le feste del Seder (celebrazione che ha luogo all’inizio della Pasqua ebraica (N.d.T.) ), se non, forse, affermando che i palestinesi stanno ripagando la brutalità israeliana con la stessa moneta. Come il Vecchio Testamento, il Corano permette la legge dell’occhio per occhio, ma ciò non giustifica né i lanci di razzi né gli attentati suicidi, che uccidono o feriscono chiunque indistintamente, non solo chi ha lanciato le bombe contro le case palestinesi riducendole in cenere.

Ho sentito alcuni tentativi di giustificazione – se i palestinesi avessero le armi sofisticate che ha Israele, anche loro compirebbero “uccisioni mirate”, un orribile eufemismo per la parola “omicidio”. Questa razionalizzazione, come quelle usate da Israele, è machiavellica, permettendo che il fine giustifichi i mezzi.

In un momento in cui così tanto sangue innocente viene versato, e così tanti bambini muoiono senza una ragione, è difficile riuscire a pensare al perdono. Ma i palestinesi devono cominciare a delineare un nuovo percorso per portare avanti la loro lotta. Devono far sì che voci di speranza possano alzarsi dalle ceneri della distruzione.

La legge dell’occhio per occhio renderà solo il mondo cieco. Alla fine, i palestinesi, come tutti gli altri popoli che cercano la libertà, devono capire che non si tratta solo di stabilire la giustezza della loro causa, ma anche la nobiltà dei mezzi che contribuiranno ad unire il loro popolo con i milioni di persone che si identificano con la loro difficile situazione.

Io faccio parte del mosaico di americani – musulmani, ebrei, cristiani e persone di altre religioni – che continuano a chiedere al nostro governo di essere un giudice giusto e imparziale in questo lungo, logorante conflitto. Purtroppo la leadership politica del mio paese, da semplice amica di Israele è da tempo divenuta una sua sostenitrice, che appoggia incondizionatamente tutti i suoi eccessi. Gli Stati Uniti hanno appena insediato il nuovo presidente. Egli ha promesso che combatterà per la libertà e per la giustizia di tutti. Lo prendiamo in parola e lo sfidiamo a mantenere le sue promesse.

Per aiutarci a costruire un movimento per la pace, sia i palestinesi che gli israeliani dovranno dimostrare che anche loro sono desiderosi ed in grado di cambiare. Nelle loro azioni dovranno riflettere i nobili ideali che essi vogliono vedere negli altri. Invece di chiedersi cosa i loro avversari stanno facendo ai loro danni, devono cominciare a chiedersi quali cambiamenti essi sono pronti a fare per la causa della pace e della giustizia. L’introspezione e la responsabilità personale costituiscono il messaggio fondamentale dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam, le tre religioni che chiamano questa regione “la Terra Santa”.
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Parvez Ahmed insegna alla University of North Florida; ha scritto numerosi articoli sull’Islam e sull’esperienza musulmana americana; gestisce un blog: drparvezahmed.blogspot.com

Titolo originale:
An eye for an eye?

GO TO ORIGINAL – UNIMED-Unione delle Università del Mediterraneo

 

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