(Italiano) Studi sulla Pace: Ispirazione, Obiettivi, Conseguimenti

ORIGINAL LANGUAGES, 22 Sep 2025

Johan Galtung | Centro Studi Sereno Regis – TRANSCEND Media Service

The Right Livelihood Award ceremony 1987. Johan Galtung is 3rd from right.

Discorso d’accettazione di Johan Galtung del Premio 1987 per un Giusto Sostentamento

La storia degli studi sulla pace è ovviamente una storia collettiva, e non è cominciata negli anni 1950 – è vecchia quanto l’umanità, come la storia degli studi sulla guerra, lo studio della guerra con mezzi bellici. Suppongo che valga lo stesso per quanto oggi si chiama studi sulla sicurezza, o per gli studi di pace con mezzi bellici, sull’equilibrio dei poteri, sull’equilibrio del terrore/ismo, sulla deterrenza mediante una rappresaglia credibile, etc. Che, manco a dirlo, non sono l’oggetto degli studi sulla pace con mezzi pacifici.

E credo che oggi sia generalmente accettato che debbano svolgersi in modo olistico e con una prospettiva globale, ossia – in termini più ristretti – interdisciplinari e internazionali. mi si chiede di dire qualcosa su ciò che mi ha portato in questo campo. Presto fatto: lo devo a tre fattori che m’ingombravano l’orizzonte da 18enne:

(1) L’apparato militare norvegese e l’istituto della coscrizione generale – quella letterina che m’invitava a servire nelle forze armate del mio paese, al tempo membro NATO, legato quindi a una delle superpotenze mondiali.

(2) Un padre molto garbato, molto dolce e molto acculturate che aveva viziato il figli per anni e anni permettendomi, anzi incoraggiandomi a, quella domanda cruciale perché, cercando sempre di rispondere pazientemente alle mie domande sempre più inquisitive.

(3) L’occupazione tedesca della Norvegia dal 1940 al ’45, soldati con le fibbie col Gott mit uns, quello stesso dio elogiato in Norvegia, col che restavano a tutti i norvegesi due domande essenziali: che cosa facciamo per evitare una cosa del genere in futuro; e, se dovessimo di nuovo venire occupati, ci sarebbe un’alternativa nonviolenta, pacifica alla resistenza armata? Due domande fattesi urgenti per me dopo che a febbraio 1944 mio padre una notte fu trascinato via in un campo di concentramento, dal quale tornò a guerra finita segnato dall’esperienza.

Nulla di misterioso quindi, semplici fonti d’ispirazione. Quando dopo tre anni di riflessione su questo, infine feci richiesta dello status di obiettore di coscienza, ci aggiunsi a mo’ di poscritto che avrei volentieri dedicato la vita a studi sulla pace, termine peraltro poco significativo, anche per me. Avevo comunque già letto un bel po’ di letteratura in merito, pur non compresa nel curriculum di studi matematici che dovevo seguire, scritti di Gandhi, Freud, Einstein etc. per pura tenacia mi laureai finalmente in matematica, diventando un matematico insoddisfacente lavorando su una matematica di cui non ho più avuto notizie, ma invece un ricercatore piuttosto valido sulla pace.

Questo riguardo all’ispirazione, e per gli obiettivi? Sono due, per nulla modesti.

Il primo è esattamente lo stesso del movimento per la pace: l’abolizione della guerra come istituzione sociale: suona ingenuo, vero? Beh, così si diceva di quelli che volevano abolire la schiavitù come istituzione sociale, e di quelli che volevano abolire il colonialismo come istituzione sociale: se ne diceva per tutti che volessero agire contro qualcosa di quanto mai oscuro e misterioso detto natura umana. Eppure, in qualche modo ci riuscirono; ci sono sì ancora elementi di schiavitù e colonialismo in giro, ma non più come istituzioni sociali legittime, ed è un punto decisamente essenziale.

Perché ciò avvenga bisogna trovare alternative; il che è un punto molto appiccicoso. In certo senso il colonialismo delle piantagioni fu l’alternativa alla schiavitù, e il neocolonialismo del Terzo Mondo l’alternativa al colonialismo, entrambi proprio inaccettabili. Un ricercatore sulla pace dovrebbe tenere a mente questo per non finire con alternative alla guerra altrettanto inaccettabili, cosa che potremmo ben considerare come la quarta categoria a quanto detto prima: guerra con mezzi pacifici. Come forse per esempio un governo mondiale che spacci la sua belligeranza come azione di polizia.

Il secondo obiettivo è più come un mezzo: condurre studi sulla pace accademicamente accettabili. Qui s’è fatto un gran progresso rispetto agli inizi di fine anni 1950. Si insegnano per esempio studi di pace in oltre cento università negli USA. Più importante ancora: abbiamo qualcosa da insegnare, un gran pozzo di conoscenza cui applicare sempre più le due importanti qualifiche – l’essere olistici e globali – non alla singola ricerca ma al loro insieme.   In breve, abbiamo appunto qualcosa da insegnare.

Quindi è ben ovvio quale sia il prossimo passo: diplomi/lauree in studi di pace, da quante più università sia possibile al mondo. Ne abbiamo bisogno a migliaia, di lauree MPS, Master in studi di pace, al servizio di organizzazioni internazionali, governative e non-governative, aziende transnazionali con una coscienza – ne esistono di ambo le specie – organizzazioni volontaristiche – religiose e sindacali, … – e soprattutto i comuni, nuovi attori di pace non trascurabili.

E, se l’elenco ancora non convince, si pensi alle tante posizioni apertesi per l’insegnamento degli studi di pace a livello di scuola elementare e secondaria!   Ne è passato di tempo da quando gli studi di pace potevano solo sfociare in altri studi di pace come opportunità lavorativa – ma c’è comunque ancora molto da fare.

La Scuola di Studi di Pace all’università di Bradford ha inaugurato il percorso, l’Università ONU per la Pace in Costarica svolge un lavoro importante nella stessa direzione, e così la Sezione ricerche sulla pace all’università di Uppsala e il programma di studi su Pace e Conflitti all’ Università di California a Berkeley, giusto per citarne alcune.

Ma serve molto, molto di più e a scala ben più ampia. Un compito particolarmente importante per un’istituzione come l’Università delle Hawaii per l’Emisfero Pacifico, o l’Istituto Austriaco di ricerca su ed Educazione alla Pace per la regione europea. Perché questo si può fare solo in luoghi con una dirigenza immaginativa, creativa.

A questo punto proverei a delineare un breve riassunto secondo me di dove stiamo con gli studi di pace. Se pace è la riduzione della violenza, come l’abolizione della guerra e fenomeni correlati, dobbiamo cominciare con una concettualizzazione migliore della violenza che il solo termine “guerra”. Ho trovato utile distinguere fra tre tipi di violenza:

  • violenza diretta, sovente espresso come potere militare, di solito sbrigativa nell’uccidere e intenzionalmente;
  • violenza strutturale, sovente espressa come potere economica, di solito non intenzionale e dall’uccisione lenta;
  • violenza culturale, sovente espressa come potere culturale, che legittima gli altri due tipi di potere, dicendo a chi li detiene che ne hanno ben diritto, addirittura il dovere  – per esempio perché le vittime di violenza diretta e/o strutturale sono pagani, selvaggi, atei, kulak, comunisti, o che altro mai.

Io ho sono giunto a considerare le prime due come relativamente semplici. Ci sono modi per ridurre gli abusi su larga scala dei poteri rispettivamente coinvolti; come la deterrenza mediante una difesa difensiva, non provocatoria come alternativa ai sistemi d’arma a lunga gittata che alludono implicitamente alla rappresaglia e all’avversario appaiono sospetti in quanto comunque capacità offensiva.

E riguardo agli abusi dei poteri economici, mediante un’autosufficienza economica a livello regionale (per il Terzo Mondo), nazionale e locale, usando propri fattori produttivi anziché diventando [/rimanendo] dipendenti da quelli altrui (“internalizzando le esternalità” e “condividendo equamente le esternalità”, in formulazioni più tecniche). Ripensare le scienze militare ed economica!

Ma la violenza culturale, sotto forma di religioni e ideologie che si annunciano come le sole fedi valide, per il mondo intero e inoltre con un Popolo Eletto nominato per diffondere agli altri tale fede, non solo come proprio diritto ma dovere, quella è più difficile da trattare. Lì si tocca una pietra fondante dell’identità di moltitudini; menzogna, sicuramente, ma come diceva Ibsen, se alla persona media la si toglie, le si toglie contemporaneamente la propria felicità. E questo non sarebbe già per sé violenza? Un problema chiave per gli studi di pace, certamente non risolto rigettandolo.

Lo cito perché funga da esempio, si spera per invogliare ad affrontarlo. La pace piace al cuore; gli studi in merito, al cervello. Sono necessari entrambi, davvero indispensabili. Ma altrettanto indispensabile è un valido collegamento fra cervello e cuore. Ed è appunto ciò, in nòcciolo, l’oggetto degli studi di pace e della loro pratica.

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Johan Galtung (24 ottobre 1930-17 febbraio 2024), era professore di studi sulla pace, Dr. hc mult, e è stato il fondatore della Rete TRANSCEND per la Pace, Sviluppo e Ambiente e rettore della TRANSCEND Peace University-TPU. Prof. Galtung ha pubblicato 1.670 articoli e capitoli di libri, più di 500 editoriali per TRANSCEND Media Service-TMS, e 170 libri su temi della pace e correlate, di cui 41 sono stati tradotti in 35 lingue, per un totale di 135 traduzioni di libri, tra cui 50 Years-100 Peace and Conflict Perspectives, ‘pubblicati dalla TRANSCEND University Press-TUP.

Original in English: 1987 Right Livelihood Acceptance Speech – Johan Galtung – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi sereno Regis

Go to Original – serenoregis.org


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