(ITALIAN) PREVENIRE E’ MEGLIO CHE IMPRIGIONARE

COMMENTARY ARCHIVES, 26 Jun 2009

Silvia Berruto

Ma quale prevenzione, se l’istigazione a delinquere spesso avviene a mezzo informazione?

Uno

Prevenire è meglio che imprigionare è (il titolo del) la giornata nazionale di studi 2009, promossa dalla redazione di Ristretti Orizzonti, periodico di informazione e cultura dal carcere Due Palazzi di Padova, e dall’associazione di Volontariato "Granello di Senape Padova".

Si è trattato di un incontro.

Un incontro fra persone. Diverse: per cultura e per destini che si sono incrociati nel carcere di Padova.

Si sono potute apprezzare le storie, le testimonianze e le sofferenze, ma soprattutto le aperture, di donne e uomini disposti a mettersi in gioco – si trattasse di relatori o di carcerati, con esperienze e train de vie anche molto distanti gli uni dagli altri – tutti accomunati dalla volontà e dalla scelta di confrontarsi.

Si tratta di persone appartenenti a cittadinanze attive, libere e non, unite nella riflessione, nel confronto, nell’elaborazione di strategie attive e di interventi mirati, che si sollecitano, si discutono e si progettano proprio all’interno dell’annuale giornata nazionale di studi.
La giornata è stata pensata e organizzata per sollecitare l’avvio di concrete attività di prevenzione.

In più di cinquecento abbiamo deciso di esserci.

Abbiamo deciso di rispondere all’invito della redazione di Ristretti a partecipare all’incontro, il cui sottotitolo ben più provocatorio del titolo ha obbligato tutti coloro che sono intellettualmente onesti a mettersi in discussione: Ma quale prevenzione, se l’istigazione a delinquere spesso avviene a mezzo informazione?

Alcuni concetti, infatti, vengono troppo spesso trattati e diffusi mediante l’uso di luoghi comuni e di contenuti generici e qualunquisti, esiti di una relativizzazione e di una banalizzazione, anche espressiva, delle idee e dei fatti, restituiti in modo impreciso quando non errato, da alcuni operatori dell’informazione, che non definirei, da un punto di vista strettamente semantico, (dei) giornalisti.

E’ stata criticata una certa informazione e, ora più che mai, è necessario, lo dico dall’interno della categoria, che i giornalisti facciano sui tali comportamenti non professionali una seria autocritica e adottino misure risolutive.

"Ci candidiamo a parlare seriamente di prevenzione" si legge nella mission del programma della giornata.

A buon diritto.

Tra gli obiettivi della giornata c’era l’intento di "Dare ai ragazzi un’idea diversa dei comportamenti a rischio, di come le vite a volte "deragliano", e poi delle pene e del carcere: è questo che ci ha spinto, cinque anni fa a iniziare un progetto con le scuole.

Volevamo insomma non che gli studenti "cambiassero idea" su questi temi, ma che si facessero una loro idea sulla base di una conoscenza diretta di un mondo difficile come quello della galera. Perché in realtà, bombardati da una informazione che spinge all’irresponsabilità, quello che i giovani (e spesso anche i loro genitori) non sanno, per esempio, che non è vero che nessuno nel nostro Paese sconta la pena in carcere, semmai il problema è quanto tempo dopo aver commesso il reato la sconterà. Abbiamo visto persone entrare in carcere per una condanna definitiva a distanza di dieci-dodici-quindici anni dalla denuncia."

Ristretti segnala a tutti e fa rimarcare a chi fa informazione la responsabilità di quest’ultima nel veicolare concetti distorti tra cui "un senso di impunità pericoloso" e spesso generalizzato, che non corrisponde alla realtà dei fatti e che emerge, ad esempio, se un meccanismo giudiziario, come quello sopra descritto, non viene analizzato e restituito al pubblico dopo un corretto trattamento da giornalisti preparati, corretti e rispettosi della deontologia professionale.

Per le ragioni su esposte l’informazione è stata accusata anche di irresponsabili silenzi sulla diffusione di alcuni meccanismi della giustizia, atteggiamento definito da Ristretti, "una vera, imperdonabile "istigazione a delinquere".

Ristretti ha lanciato una critica decisa, pertinente, necessaria e dura nei confronti di una certa informazione che, irresponsabile, "spinge (il lettore, ndr) all’irresponsabilità."

Ristretti ha richiamato la stampa ad una maggiore attenzione nella scelta e nell’uso delle parole: in sintesi con un’attenzione più mirata nel fare informazione.

Per quanto riguarda la prevenzione, la redazione di Ristretti spiega agli studenti delle scuole medie, inferiori e superiori, che a migliaia sono stati coinvolti nel progetto, ormai quinquennale, "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere", che "dietro ogni reato c’è una persona, che l’umanità di un reato non cancella la gravità del reato, che si deve comprendere "come e dove le vite, a volte, deragliano" con l’aiuto delle persone detenute che mettono a disposizione le loro esperienze. La prevenzione sta anche nel riconoscere, da parte delle persone detenute ma anche dei volontari, l’importanza delle parole e le conseguenze del loro uso: le parole sono come massi, possono arrecare dolore, mascherare o abbellire la realtà, possono essere alibi o giustificazioni.

Valorizzando il ruolo delle vittime in una prospettiva nuova nel doloroso ma quanto mai necessario e indispensabile lavoro sul sé per ricomporre lo strappo con la società, all’interno del lavoro di prevenzione che passa anche attraverso la riflessione sul rapporto fra autori e vittime di un reato, Ristretti è riuscita a coinvolgere le vittime in laboratori di mediazione sociale che possono operare per quello che Benedetta Tobagi descrive bene con l’espressione "rompere le catene dell’odio".

Molteplici sono state le testimonianze all’interno dei lavori che sono stati coordinati, con passione e raffinata sensibilità, da Adolfo Ceretti, Professore Straordinario di Criminologia, Università di Milano-Bicocca e Coordinatore Scientifico dell’Ufficio per la Mediazione Penale di Milano.

Elena Valdini, autrice di "Strage continua. La verità sulle vittime della strada", è diventata giornalista, come afferma lei stessa, per il bisogno di trovare onestà nell’informazione. Valdini invece di un incidente, che ha una nuance di casualità, preferisce si parli di scontro.

Roberto Merli, padre di Alessandro, ucciso nel 2000, a 14 anni da un’automobilista, referente provinciale, con sede di Brescia, dell’Associazione Italiana Familiari e vittime della strada e referente provinciale, illustra gli scopi dell’associazione il primo dei quali è essere vicino alle famiglie, dando un apporto con conforto umano, assistenza psicologica in consultori familiari permanenti, e assistenza legale.

L’associazione ha circa 108 sedi dislocate sul territorio nazionale ma la sede di Brescia è l’unica che fa prevenzione con corsi di sensibilizzazione e di educazione civica costante nelle scuole.

Merli ha parlato di "guerra civile" rispetto ai numeri relativi agli incidenti che avvengono annualmente sulle strade. Come risulta dalle statistiche sarebbero 7000 i morti all’anno per scontri stradali, 19 morti al giorno, e a 300.000 i feriti, dei quali 20.000 sono disabili gravi, per un totale di 54 feriti gravi al giorno.

Mi ha lasciato perplessa la scelta della parola "guerra" che, a mio avviso, viene impiegata in modo discutibile, anche in relazione ad alcune premesse ai lavori.

"Siamo noi (un noi collettivo, che non esclude nessuno, ndr) che dobbiamo far di tutto per diminuire questo! ha concluso con determinazione Roberto Merli.

Alle testimonianze dei relatori esterni si sono alternate quelle delle persone detenute.

Andrea, in carcere da quattordici anni, fa parte della redazione di Ristretti dall’inizio (dal 1998) e ha visto nascere il progetto nelle scuole Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere che mette davanti a tutto la prevenzione". Andrea, sottolinea, in modo non surrettizio, che quando si parla di prevenzione si deve parlare di entrambe le parti coinvolte quando viene commesso un reato. Secondo Andrea è facile immedesimarsi nella parte della vittima, e dichiara che anche a lui è successo, ma per quanto ha potuto riscontrare nella sua esperienza, sono le persone comunemente definite "normali" che possono commettere, in momenti particolari, per leggerezza o per incoscienza, dei reati.

Ricorda la forte convinzione personale, dopo l’assunzione di sostanze, di poter essere lucido e padrone delle proprie azioni e della sensazione di assoluta certezza che non sarebbe mai successo niente "perché ero in possesso di tutte le mie facoltà", dichiara, tranne poi doversi ricredere.

Vanni dice che per raccontare il reato bisogna raccontare la relativa storia personale.

E non è cosa da poco raccontare la propria storia in questi casi.

Ceretti, ringraziando i detenuti, interviene e cita di Fabrizio De André "Per tutti il dolore degli altri è dolore a metà " per lui molto importante e rivolgendosi alle persone detenute e dice "Voi siete riusciti a raccontare non solo la metà del dolore ma tutto il dolore … perché il lavoro che state facendo è un lavoro capace di costruire la propria pace e di costruire rapporti con chi ovviamente non ha attraversato queste esperienze ma può cominciare a comprendere che cosa significa essere dall’altra parte."

Gianfranco Bettin, sociologo e autore di "Eredi. Da Pietro Maso a Erika e Omar", Mauro Grimoldi psicologo e autore di "Adolescenze estreme", Don Gino Rigoldi, cappellano dell’Istituto penale minorile Beccaria e autore di "Un male minore" hanno dissertato sul tema dei comportamenti a rischio dei giovani.

Valter dice che il progetto con le scuole dimostra che in carcere non ci sono i mostri o i predestinati ma persone "normalissime" e sottolinea come, anche avendo avuto un percorso esistenziale regolare, si possa ugualmente finire in carcere.

Ceretti presenta quindi il lavoro di Giovanni Torrente. "Ma qual è il vero problema che Torrente ha studiato con una serietà e un rigore metodologico come i sociologi del diritto più bravi sanno fare è quello di capire e di dare una risposta, ormai invisa, al fatto se l’indulto abbia naturalmente inciso sui tassi di recidiva dei reati. Questa è una domanda alla quale abbiamo sentito continuamente rispondere in modo urlato e volgare" e invita Torrente a dire qualcosa di serio.

Giovanni Torrente, docente di Sociologia Giuridica dell’Università della Valle d’Aosta, (si veda, nel blog, in merito il mio precedente pezzo "Le verità sull’indulto. Presentata a Padova la ricerca di Giovanni Torrente" pubblicato anche da Informazione Valle d’Aosta) illustra la sua ricerca dalla quale emerge in sintesi un dato di disinformazione imputabile a parte dei media che hanno restituito dati errati, esiti di errori interpretativi con conseguenze gravissime per l’informazione collettiva e strumentalizzazioni politiche dei dati.

Sono le stesse le fonti del dato diffuso da Torrente e del dato fornito, ad esempio, dal ministro Alfano nel 2008 circa la percentuale dei beneficiari dell’indulto rientrato in carcere: il 18,57% per Torrente e il 36% per Alfano.

Questa assai diversa restituzione dei dati è imputabile ad una diversa lettura e interpretazione dei dati: il dato del ministro non restituirebbe, secondo Torrente, il tasso di recidiva "reale" ma gli "eventi di reingressi"che ovviamente sovradimensiona
il fenomeno. "Quello citato è solo un esempio di un sistema organizzativo non finalizzato alla produzione di dati utilizzabili come strumento di analisi delle politiche criminali" sostiene Torrente.

Su informazione, prevenzione e vittime hanno portato la loro testimonianza Paola Reggiani, Benedetta Tobagi e Silvia Giralucci volontarie nella redazione di Ristretti.

L’intervento di Paola Reggiani, sorella minore di Giovanna Reggiani, è stato introdotto da Lorenzo Guadagnucci, giornalista, che ha realizzato un’intervista esclusiva pubblicata sul libro "Lavavetri" e ha restituito, con la professionalità ma soprattutto con la sensibilità che gli sono proprie, il progetto di ricostruzione del sé della famiglia Reggiani, dopo la morte di Giovanna.

Di impegno nelle carceri e nelle scuole ha parlato Antonella Mascali autrice di "Lotta civile" in cui in dodici storie di familiari di vittime di mafia si narra il processo di trasformazione della sofferenza in impegno sociale.

Ma "occorre abbassare i toni, smettere di incitare l’opinione pubblica a farsi giustizia da sé e ragionare su tutte le forme possibili di prevenzione. La nostra proposta è di giungere alla creazione di un possibile tavolo di lavoro che promuova politiche di prevenzione nuove, basate sulle testimonianze dirette degli autori di reato, su un coinvolgimento diverso delle vittime, e su una mediazione sociale intesa come strumento per "ricucire lo strappo" tra la società e chi ne ha violato le regole".

Padova
22 maggio 2009
Casa di reclusione di Padova


GO TO ORIGINAL – LIBEROSTILE

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