(Italiano) Pace e giustizia per il popolo Palestinese: una conversazione

ORIGINAL LANGUAGES, 5 Mar 2018

Richard Falk | Centro Studi Sereno Regis – TRANSCEND Media Service

Segue il testo adattato di un’intervista con Khourosh Ziabari, inizialmente pubblicato il 4 febbraio u.s. sul sito dell’Organization for Defending Victims of Violence http://www.odvv.org/

Khourosh Ziabari: La crisi umanitaria a Gaza è entrata nell’11° anno di un assedio crippling di Israele che rende le condizioni di vita dei palestinesi via via più complicate. Il blocco di quella che si definisce popolarmente “la prigione all’aperto più grande al mondo” vuol dire disoccupazione crescente, accesso intermittente ad acqua pura, un’economia sballata e infrastrutture carenti e mancanza di fondi che rendono la popolazione di due milioni vulnerabile alle forti piogge e a fenomeni meteorologici estremi. L’ex-rapporteur speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi crede che Israele non stia facendo abbastanza per rendere migliori le condizioni di vita dei palestinesi di Gaza, e che anche gli Stati Uniti non stiano avendo un ruolo costruttivo.

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton, ha pubblicato e co-redatto una quarantina di libri sui diritti umani, sul diritto umanitario internazionale e sul conflitto israelo-palestinese.

In una intervista con l’Organizzazione per la Difesa delle vittime di violenza, il prof. Falk ha scambiato opinioni sulla recente controversa attorno alla proposta del presidente Trump di spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme e sulla perdurante emergenza umanitaria nei territori palestinesi.

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D: In un pezzo recentemente pubblicato sul Foreign Policy Journal, lei ha parlato della Palestina come di una nazione enormemente discriminata, che nei decenni recenti ha subito grossi patimenti per l’incapacità o riluttanza delle Nazioni Unite di prendere misure per equilibrare i bisogni del popolo palestinese rispetto alla prevalenza politica d’Israele e dei suoi alleati. Il miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi dipende dal ritrovamento di una soluzione logica e giustificabile per por fine al conflitto. La comunità internazionale è davvero incapace di tirar fuori una soluzione sostenibile e onnicomprensiva?

R: il fallimento della comunità internazionale riguardo ai palestinesi e le loro legittime rimostranze è dovuto a parecchie circostanze speciali; soprattutto, la determinazione soggiacente del movimento sionista di controllare quasi tutta la Palestina secondo i confini del mandato britannico. A tal proposito, non si dovrebbero mai prendere per buone le asserzioni dei capi israeliani sul loro desiderio di un compromesso politico, manifestamente insincere, gesti di pubbliche relazioni in cerca d’influenzare l’opinione pubblica internazionale, e trasmettere la falsa impressione che Israele stia cercando un compromesso politico con la Palestina.

In secondo luogo, quest’ambizione sionista è fortemente sostenuta dagli Stati Uniti pur non venendo chiaramente articolata dal governo d’Israele. Quest’opacità, in essenza un inganno, permette alla comunità internazionale di agire come se il processo di pace sia capace di produrre una soluzione per il conflitto anche se le azioni d’Israele sul terreno puntino sempre più chiaramente a un risultato unilaterale imposto, essenzialmente un’insistenza unilaterale che il conflitto sia già stato risolto a favore d’Israele.

Terzo, la ‘relazione speciale’ fra Israele e gli USA si traduce in un dispositivo di protezione geo-politica che ingloba temi securitari e si spinge addirittura a isolare Israele dalla censura dell’ONU, specialmente da parte del Consiglio di Sicurezza, e rendendo impossibili da imporre le sanzioni. In tale contesto, gli israeliani sono in grado di perseguire i propri obiettivi, ignorando le afflizioni palestinesi, il che risulta in loro tragedia e sofferenza. Dato l’equilibrio di forze, non c’è in vista alcuna fine al conflitto con modalità eque.

D: Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele del presidente Donald Trump e il suo intento di trasferirvi l’ambasciata USA ha trovato gran resistenza alle Nazioni Unite, a livello sia dell’Assemblea Generale sia del Consiglio di Sicurezza. Perché pensa che la comunità internazionale e perfino i maggiori alleati degli USA non abbiano detto sì alla proposta?

R: L’iniziativa di Trump su Gerusalemme ha infranto una qualunque pur fragile base esistesse per cercare una soluzione diplomatica ai rapporti fra Israele e Palestina. C’era una chiara intesa, rispettata dai leader americani precedenti, che la disposizione di Gerusalemme fosse una faccenda da sistemare solo con negoziati fra le parti. Quest’intesa è stata rotta dall’iniziativa Trump per nessun motivo apparente eccetto il compiacere Netanyahu e dei ricchi donatori sionisti negli USA. Oltre tutto, il parteggiare di Trump per Israele su un tema così sensibile, di profonda importanza simbolica e sostanziale, non solo per i palestinesi, ma per i musulmani d’ogni dove, e anche per i cristiani, ha danneggiato irrimediabilmente la credibilità degli Stati Uniti nell’agire da intermediario accettabile in qualsiasi futuro processo di pace.

La credibilità americana era bassa comunque, ma quest’ultima mossa su Gerusalemme, ha tolto almeno per il futuro prevedibile ogni dubbio residuo sul loro approccio partigiano e, peggio ancora, ha reso evidente che la diplomazia basata sulla soluzione a due stati avesse raggiunto un punto senza ritorno.

Da un certo aspetto, la mossa di Trump su Gerusalemme ha tolto le fette di prosciutto dagli occhi del mondo. Avrebbe dovuto essere chiaro da anni che le dimensioni del fenomeno delle colonie e l’influenza dei coloni, ormai circa 800mila, aveva reso impraticabile considerare l’istituzione di uno stato palestinese davvero indipendente e vitale. Come pure, gli USA avevano da tempo cessato di essere un mediatore onesto nell’arena diplomatica descritta con riferimento al ‘processo di pace’, e probabilmente non fossero mai stati dall’inizio fautori della ricerca internazionale di una soluzione di genuino compromesso politico. Se dev’esserci una diplomazia efficace riguardo ai rapporti fra i due popoli, dev’essere comunque preceduta dallo smantellamento delle strutture d’apartheid sviluppate da Israele nei decenni per soggiogare il Popolo palestinese nel suo insieme, e gli Stati Uniti devono essere sostituiti da un intermediario di terzietà credibile. Israele non sente alcuna pressione per accettare tali cambiamenti, e così non c’è alternativa attuale all’esercitare pressione per l’insostenibile status quo col sostegno di una resistenza palestinese nonviolenta militante e il movimento di solidarietà globale, riconoscendone specialmente il contributo della campagna BDS. Che, può essere rilevante notarlo, è stata nominata per il conferimento del Premio Nobel per la Pace 2018.

D: In anni recenti, sono state emanate molte risoluzioni e dichiarazioni in condanna dell’espansione degli insediamenti d’Israele nei territori palestinesi occupati in seguito alla Guerra dei 6 giorni nel 1967, dall’Assemblea Generale ONU e dai suoi enti affiliati per i diritti umani. Pefino la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza (UNSC) 2334 (del 2016) dichiara l’attività d’insediamento d’Israele una “flagrante violazione” del diritto internazionale. Funge una soluzione di pubblicazione di dichiarazioni e condanne di uno stato che le ignora e non riconosce anzi considera invalide le richieste? Se la comunità internazionale è convinta che Israele dovrebbe smettere gli insediamenti illegali, com’è possibile attuarlo?

R: La continua espansione degli insediamenti nonostante la loro patente violazione dell’Articolo 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra è un’espressione del disprezzo d’Israele per il diritto internazionale e per l’opinione pubblica mondiale. Rivela anche l’impotenza dell’ONU a fare qualcosa d’efficace per imporre la sua volontà che sia un po’ più consequenziale che l’esprimere rimostranze. Quando realtà geopolitiche schermano il comportamento di uno stato dalle pressioni internazionali, l’ONU è impotente ad attuare le sue risoluzioni, e il diritto internazionale viene messo da parte. L’ONU è un’organizzazione di stati, e limitata nella sua capacità di plasmare il comportamento, specialmente col potere di veto dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Come tale, non ci si è mai aspettati che l’ONU avesse la capacità costituzionale di superare le opinioni scolpite e gli impegni conseguenti dei cinque stati muniti di diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza secondo lo Statuto ONU. Il Consiglio di Sicurezza è l’unico organo del sistema ONU con una chiara autorità di pervenire a decisioni e di attuarle, diversamente dalle opinioni consultorie e raccomandazioni. Il conflitto Israele/Palestina è una versione estrema del Patto Faustiano fatto fra la struttura geopolitica di potere e la giustizia globale, scritto nello Statuto ONU e suo scheletro costituzionale, nonché esibito nella prassi ONU lungo gli anni.

D: Nuovi rapporti e cifre mostrano che gli standard di vita e le condizioni economiche nella Striscia di Gaza stanno peggiorando col tempo. Il tasso di disoccupazione è salito al 46%. Organismi di ricerca e media locali dicono che il 65% della popolazione è alle prese con la povertà e che il tasso d’insicurezza alimentare è più o meno del 50%. Come pensa che la perturbante crisi umanitaria a Gaza possa essere alleviata?

R: È difficile comprendere con precisione la strategia israeliana verso Gaza dato che le sue motivazioni sono molto diverse dalle sue giustificazioni asserite. La politica israeliana si mostra sovente crudele e vendicativa, con le logiche di sicurezza che paiono più pretesti che spiegazioni. A Gaza Israele ha usato ripetutamente forza eccessiva e si è fatto poco sforzo per arrivare a qualche tipo di stabilità tollerabile.

Israele ha respinto una serie di proposte per tregue a lungo termine fatte da Hamas durante lo scorso decennio. Israele ha attaccato periodicamente Gaza, infliggendo gravi danni a una società civile impotente e impoverita, nel 2008-09, 2012 e 2014 mentre la comunità internazionale condannava questi eccessivi impieghi di forza. Ora la morsa economica sta sospingendo ancora una volta Gaza all’orlo di un disastro umanitario, travaglio di quasi due milioni di palestinesi intrappolati ed estremamente vulnerabili. La situazione a Gaza è di nuovo questione di grave preoccupazione, con allarmi umanitari da chi conosce bene la salute precaria e la crisi di sussistenza di fronte alla popolazione.

Non è chiaro che cosa Israele voglia effettivamente che succeda a Gaza. A differenza della Cisgiordania e di Gerusalemme, Gaza non fa parte del piano di gioco territoriale sionista, e non è considerata parte dell’Israele biblico. In quanto Israele sta perseguendo una soluzione a un singolo stato imposta ai palestinesi, Gaza ne verrebbe probabilmente esclusa dato che la sua popolazione aggiuntiva potrebbe rischiare di far esplodere la ‘bomba demografica’ che da tanto preoccupa gli israeliani perché minaccerebbe la maggioranza ebraica artificialmente creata e il presunto controllo ‘democratico’ di tale comunità etnocratica.

Il progetto sionista ricorre da molto a misure estreme per conseguire e mantenere la pretesa democratica del suo processo di governo, inizialmente spodestando ben 700mila palestinesi dal territorio che divenne Israele nel 1948. Quella spoliazione coatta durante combattimenti fu accompagnata da un rifiuto post-conflittuale di permettere qualunque diritto di ritorno a coloro che avevano lasciato case e villaggi durante la guerra. Tale pulizia etnica fu rafforzata dalla completa distruzione con bulldozer di centinaia di villaggi palestinesi. Questa modalità di controllo del rapporto demografico fra ebrei e non-ebrei è un tema persistente fin dall’emanazione della Dichiarazione Balfour nel 1917 allorché la popolazione ebraica della Palestina era intorno al 5%. Nei primi tempi, lo sforzo sionista si concentrò sul superamento dello status di minoranza demografica ebraica stimolando e sovvenzionando l’immigrazione ebraica. Eppure anche dopo il rapido incremento d’immigrazione indotto dal sorgere del nazismo e dell’anti-semitismo europeo, la popolazione ebraica in Palestina era solo circa il 30% all’inizio della guerra del 1947-48.

A Israele probabilmente piacerebbe far sparire Gaza. Se non dovesse accadere, la soluzione di ripiego sarebbe di affidarne il controllo amministrativo, la responsabilità di sicurezza e l’autorità sovrana a Giordania o Egitto. Per ora non un governo arabo intende assumere il controllo di Gaza. Con queste considerazioni in mente, Israele pare determinato a mantenere un’intensa pressione su Gaza, permettendo alla sua popolazione giusto di galleggiare attorno alla soglia di sussistenza, ammonendo il resto della regione sulla propria aggressività, asserendo una presenza militare di tanto in tanto, che sembra sia punitiva sia designata a rammentare ai Gazani che la resistenza da parte loro verrebbe contrastata da una forza letale preponderante che causerebbe devastazione e gravi perdite, così imponendo anche sulla popolazione civile una condizione di persistente disperazione.

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Richard Falk is a member of the TRANSCEND Network, an international relations scholar, professor emeritus of international law at Princeton University, author, co-author or editor of 40 books, and a speaker and activist on world affairs. In 2008, the United Nations Human Rights Council (UNHRC) appointed Falk to a six-year term as a United Nations Special Rapporteur on “the situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967.” Since 2002 he has lived in Santa Barbara, California, and taught at the local campus of the University of California in Global and International Studies, and since 2005 chaired the Board of the Nuclear Age Peace Foundation. His most recent book is Achieving Human Rights (2009).

Titolo originale: Peace and Justice for the Palestinian People: a Conversation – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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