(Italiano) Attacchi giuridici israeliani e diritti palestinesi

ORIGINAL LANGUAGES, 17 May 2021

Jake Lynch | Centro Studi Sereno Regis - TRANSCEND Media Service

Photo by Ahmed Abu Hameeda on Unsplash

12 Maggio 2021 – I sostenitori dei diritti palestinesi hanno finora rintuzzato bene i tentativi di zittire la propria attività e sopprimere le proprie azioni solidali, con quattro importanti vittorie legali in altrettante distinte giurisdizioni ottenute durante l’ultimo anno.

In Australia il mese scorso Melissa Parke, ex-legislatore federale laburista e funzionario legale ONU a Gaza, ha vinto una causa di diffamazione contro Colin Rubenstein, direttore del Australia/ Israel and Jewish Affairs Council, che ha pubblicato una dichiarazione conciliatoria tale per cui lei non era in effetti una “calunniatrice compulsiva, una teorica della cospirazione, una bugiarda, una fanatica, o un’antisemita”. La signora Parke aveva intrapreso l’azione legale – ha spiegato – “affinché mi fosse riconosciuto di non essere alcuna delle cose imputatemi” e per contrastare “l’abusata trasformazione in arma delle accuse di antisemitismo”.

In marzo, negli Stati Uniti, un giudice federale ha rigettato una causa intentata dal JNF (Fondo Nazionale Ebraico) contro la USCPR (Campagna USA per i Diritti Palestinesi). Il JNF – ente statale d’acquisizione e amministrazione fondiaria a esclusivo beneficio dei cittadini israeliani ebrei – aveva accusato la USCPR di avere a che fare con “sostegno materiale al terrorismo”, argomento definito dal tribunale “quanto meno non persuasivo”. La condotta imputata comprendeva il sostegno della USCPR  al Movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) e la campagna di proteste Stop the JNF contro le sue pratiche discriminatorie.

Lo scorso giugno la Corte Europea dei Diritti Umani ha rovesciato le condanne di antisemitismo inflitte a 11 attivisti in Francia che avevano partecipato alla campagna BDS sollecitando gli acquirenti a un supermarket Carrefour a boicottare le merci importate da Israele. I giudici hanno stabilito con sentenza unanime di sostenere i diritti di libertà d’espressione dei querelanti, garantiti dalla Convenzione Europe sui Diritti Umani; e ingiunto al governo francese di pagare ad ogni attivista circa $8,000 in danni oltre alle spese legali.

E appena più di un anno fa, la Corte Suprema UK ha rovesciato regolamentazioni parlamentari del 2016 che impedivano ai fondi pensione governativi locali qualunque decisione di disinvestimento non allineata alla politica estera UK – affermando così un diritto con implicazioni anche per le campagne tese a fermare la distruzione climatica e l’industria della difesa.

In due giurisdizioni, dove non sono ancora stati rovesciati i tentativi ufficiali di sopprimere il sostegno alla causa palestinese in generale, e l’appoggio all’azione BDS in particolare, ci sono tuttavia accenni a qualche progresso per azioni solidali che sfidino la trasformazione dell’antisemitismo [presunto] in arma da parte dello stato d’Israele. In Germania, si sono uniti leader culturali per dire la loro e respingere quella che si è descritta come “caccia alle streghe” contro i critici d’Israele. E in Spagna, dove i tribunali hanno sentenziato come “incostituzionali” le mozioni comunali di boicottaggio, gli attivisti hanno trovato altre angolazioni come dichiarare i propri territori liberi dall’ “apartheid israeliano”.

Per importanti che siano i procedimenti giudiziari, li si dovrebbe considerare come mezzi per un fine – cioè la focalizzazione sulle ingiustizie dispensate ai palestinesi e sull’urgenza di porvi fine. Come ha detto Melissa Parke nella sua dichiarazione successive alla vittoria in tribunale in Australia: “Credo che sia quanto mai importante per la nostra società democratica che le persone possano esprimersi liberamente contro l’ingiustizia in luoghi come la Palestina, senza esser per questo diffamate”.

Lo stesso vale anche per l’attuale indagine del Tribunale Penale Internazionale (TPI), a giudicare dalle cui apparenze la causa contro Israele non potrebbe essere più chiara. La Quarta Convenzione di Ginevra asserisce esplicitamente: “Una potenza occupante non deve trasferire alcuna parte della propria popolazione nel territorio che occupa”. L’intero programma di costruzione d’insediamenti ebraici in Cisgiordania dovrebbe essere sentenziato come crimine di guerra. Ma ciò è appunto il motivo per cui aderenti statuali al tribunale sono intenti a minarlo rigettando il suo diritto alla giurisdizione – ignorando il diritto conseguito dai palestinesi diventando Stato Osservatore Non-Membro dell’ONU. Sicché, dei ministri degli esteri di alcuni degli stessi paesi che hanno visto vittorie in tribunale di patrocinatori di giustizia per la Palestina hanno emesso dichiarazioni di rifiuto del coinvolgimento del TPI.

Che Washington assuma tale posizione è almeno coerente con l’atteggiamento ormai tediosamente famigliare di eccezionalismo americano, e in tale misura logica. Gli USA all’inizio firmarono lo Statuto di Roma, che istituiva il Tribunale, per poi però ritirarsene. Ma l’Australia e il Regno Unto si sono messi in una posizione convoluta anche per gli standard della diplomazia internazionale – come sostenitori teorici del TPI e dell’ONU (ivi comprese le norme che espongono chiaramente le spettanze dei palestinesi) e che cionondimeno cercano ora di essere in disaccordo con la sua decisione in questo caso.

Viene così messo a nudo il livello di distorsione e subornazione del processo politico della lobby israeliana. Si è fatta luce in angoli che restano generalmente bui con la pubblicazione (e la serializzazione sul quotidiano Daily Mail) delle memorie di Sir Alan Duncan, ex-ministro degli esteri britannico. A quelli con ricordi più arretrati tornerà in mente Shai Masot, funzionario politico all’ambasciata israeliana di Londra, che giurò di “sbatter giù” Sir Alan per la sua enfasi sconveniente per il diritto internazionale umanitario al momento di valutare gli insediamenti. Masot è diventato un involontario personaggio TV dopo essere stato segretamente filmato da Al Jazeera.

Nel suo libro In The Thick Of It, Duncan accusa un gruppo di pressione entro il suo partito, Conservative Friends of Israel, di essere il veicolo di una “disgustosa interferenza” nella politica UK verso il Medio Oriente. “È una sorta di scandalo sotterraneo che deve cessare” ha detto a un intervistatore, il corrispondente politico veterano Michael Crick. “Interferiranno ad alto livello nella politica Britannica nell’interesse d’Israele in aggiunta al potere dei donatori nel Regno Unito”.

Non c’è stata una serie equivalente sulla lobby in Australia, benché le sue manovre siano state tirate fuori dall’ombra con la pubblicazione di My Israel Question, un libro del giornalista internazionale Antony Loewenstein. (Il ‘reato’ di Melissa Parke che fu l’occasione del suo attacco da parte di Colin Rubenstein, era stato solo riferirsi in un discorso all’influenza israeliana sulla politica australiana).

Sono ormai sette anni dalla mia vittoria alla Corte Federale dell’Australia su Shurat Ha’Din, un gruppo legale israeliano successivamente smascherato, nei messaggi diplomatici di Wikileaks, come cane d’attacco a media distanza dell’apparato statale di sicurezza israeliano. Avevo rifiutato di avallare una domanda di associazione di un professore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, perseverando nel mio sostegno al boicottaggio accademico. Prefigurando il caso più recente contro la Campagna USA per i Diritti Palestinesi, fui accusato di una bizzarra “colpa per associazione [apologetica a rei – ndt]”.

Il rifiuto dell’artista Elvis Costello di un tour di registrazione in Israele fu attribuito alla mia influenza – e un fan del cantante fu pertanto assurto a co-querelante. Quando questi nessi si raggrinzirono difronte all’evidenza e alla necessità di dimostrare, in un tribunale indipendente, i rapporti di causa ed effetto, il caso fu infine archiviato per ‘carenza di rango’ – non prima che si esigesse da Shurat Ha’Din un corposo pagamento per i miei costi.

Le risultanze del gruppo di monitoraggio israeliano globalmente rispettato B’t Selem – e più di recente Human Rights Watch – che il trattamento dei palestinesi equivale a una forma di apartheid dovrebbe intensificare gli sforzi dei patrocinatori di svuotare la presunzione di legittimità, nonché a favore del BDS (la campagna ha infatti ricevuto notevole impulso in Australia dopo il caso Shurat Ha’Din). Tale onere è più chiaramente che mai sulle spalle di cittadini, associazioni professionali, sindacati, autorità locali ed altri, che prendano in mano la faccenda. Le sentenze di tribunale sono un complemento benvenuto e talora innesco di una tale azione, ma non un surrogato.

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Jake Lynch lavora presso il Dipartimento di studi sulla pace e sui conflitti Jake Lynch lavora presso il Dipartimento di studi sulla pace e sui conflitti dell’Università di Sydney, dopo aver completato una Leverhulme Visiting Professorship presso l’Università di Coventry, nel Regno Unito, nel 2020. Il suo romanzo di debutto “Blood on the Stone: An Oxford Detective Story of the 17th Century” (“Sangue sulla pietra: una storia di spionaggio a Oxford del 17° secolo” n.d.t.), pubblicato per Unbound Books. Jake ha trascorso 20 anni a sviluppare e condurre ricerche nel giornalismo di Pace, tra teoria e pratica. È autore di sette libri e oltre 50 articoli e capitoli di pubblicazione accreditati. Il suo lavoro in questo campo è stato riconosciuto con il premio del Luxembourg Peace Prize nel 2017, dalla Schengen Peace Foundation. Ha svolto servizio per due anni come Segretario generale dell’International Peace Research Association, per cui ha organizzato la sua conferenza biennale a Sydney nel 2010. Prima di cimentarsi nel mondo accademico, Jake ha intrapreso la carriera da giornalista per 17 anni, per un breve periodo come corrispondente della politica a Westminster per Sky News, sempre come corrispondente per il quotidiano Independent a Sydney, culmina nel ruolo di presentatore televisivo per la BBC World Television News. Lynch è membro di TRANSCEND Rete per uno svillupo ambientale e di Pace e consulente di TRANSCEND Media Service. È co-autore insieme a Annabel McGoldrick, di “Peace Journalism” (Hawthorn Press, 2005), e “Debates in Peace Journalism”, Sydney University Press e TRANSCEND University Press. È stato inoltre co-autore con Johan Galtung e Annabel McGoldrick di “Reporting Conflict: An Introduction to Peace Journalism”, il cui editore Antonio C.S. Rosa per TMS ha tradotto in Portoghese. Il suo libro più recente di ricerca accademica s’intitola “A Global Standard for Reporting Conflict” (Taylor & Francis, 2014).

Original in English: The Global Fightback against Israeli Lawfare Attacks on Advocacy for Palestinian Rights – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis

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